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«Avrei dovuto dire Ho paura, ho davvero paura, non ho mai saputo fare nulla in tutta la mia vita, figuriamoci se so come si fa il padre». (p. 28)
Paura: parola chiave per comprendere l’essenza della storia narrata in Sono quasi pronto, ultimo romanzo di
Giorgio Biferali, pubblicato dalla casa editrice Ponte alle Grazie, nel mese di maggio 2024 e ambientato nella
capitale, durante gli anni del Covid.
È, infatti,
proprio dalla paura di diventare padre,
o forse di riconoscersi finalmente adulto, che inizia quel percorso di auto-analisi del protagonista - alter
ego letterario di Biferali - che rappresenta il filo conduttore del romanzo,
che per le caratteristiche stilistiche e le intenzioni dell’autore, si colloca
fra il genere di formazione e l’autofiction.
Paura. Paura della
paternità e di entrare “ufficialmente” nel mondo degli adulti. Paura del cambiamento, di non essere
all’altezza delle situazioni e di vedere improvvisamente modificarsi le
relazioni più profonde, con il rischio che possano incrinarsi. Come quella con
Bianca, compagna del protagonista che, invece, «ormai era una mamma e si
vedeva» (p. 25). Paura della vita che si
complica «che va sempre spiegata, che pretende che tu abbia un’opinione su
tutto, che tu faccia determinate cose perché non è il caso di farne altre» (p.
19).
Paura
dei
“fantasmi del passato”, un aspetto
che accomuna il percorso del protagonista con quello della propria compagna.
Fantasmi forse ancora in parte irrisolti, e comunque da tenere sotto controllo,
rappresentati dai ricordi dell’infanzia e, principalmente, dalla difficile
relazione con la figura paterna:
«Tra di noi c’erano troppi appuntamenti mancati» (p. 75); «[…] come se avessimo costruito insieme un muro così alto fra noi da non riuscire più a scavalcarlo, un muro pieno di cocci di bottiglia sulla cima come in quella poesia che hai quasi paura di affacciarti per vedere che aria tira dall’altra parte». (p. 76)
Paura
della morte che, attraverso la malattia, incombe
innanzitutto sul destino di una madre capace di addolcire la convivenza con i
“fantasmi del passato” e, grazie alla quale, il protagonista ha costruito la
fiducia e l’autoconsapevolezza, ereditandone l’amore per la lettura.
Paura
dell’attesa, di quei momenti di vita sospesa in cui,
non sapendo come andrà a finire, ti ripeti che “andrà tutto bene”- e provi
anche a crederci. Non a caso, molti passaggi del romanzo sono ambientati
proprio all’interno di una sala d’attesa d’ospedale, quel luogo dove vita e
morte si incontrano e si sfidano costantemente, un posto molto significativo in
questa fase della vita del protagonista, ma anche per il periodo storico in cui
si svolge la vicenda. Si tratta, infatti, di un momento d’attesa per l’intera umanità: gli anni del
Covid-19, che fa da sfondo all’ambientazione per contribuire a delineare la
sensazione della crisi.
L’idea
di crisi si dipana fra le pagine del romanzo attraverso la
narrazione in prima persona, con uno stile
peculiarissimo, con il quale Biferali, docente di scrittura alla “Molly Bloom”, conferma l’originalità
della sua penna.
L'autore ci coinvolge e stupisce con
una prosa ora più “nervosa” - nei momenti di maggiore tensione emotiva e di approfondimento
dell’auto-analisi -, ora più scorrevole - quando la riflessione è mitigata
dall’ironia e alleggerita dalle confessioni sincere del protagonista - nella
quale, a tratti, diventa labile il confine fra monologo interiore e flusso di
coscienza.
Anche la scrittura contribuisce, dunque, a trasmettere quella sensazione di crisi che rappresenta il filo conduttore del percorso di formazione del nostro protagonista. Il narratore riserva, inoltre, ampio spazio alle riflessioni sul valore salvifico e terapeutico della stessa, considerandola quello strumento di analisi e auto-analisi, che più di ogni altra cosa gli consente di mettere a fuoco il mondo, ma soprattutto di “mettere a fuoco” se stesso:
«Che scrivere, per me, è un po’ come mettere ordine a tutto quello che succede dentro di me, che quello che provo mentre scrivo mi piace e mi spaventa anche, perché è come se smettessi di esistere un po’, se non avessi più identità, se scomparissi chissà dove». (p. 182)
«So che c’è un luogo in cui posso rifugiarmi, in cui posso nascondermi, in cui posso conservare i miei ricordi». (p. 232)
Si tratta di riflessioni di
indubbia matrice autobiografica, attraverso le quali le esperienze del
narratore e dell’autore si sovrappongono quasi completamente: basti pensare all’incontro del protagonista prima
con la lettura, poi con la scrittura, che è per lui “fuga dal mondo”, al mestiere di
insegnante, al mestiere di scrittore…
Ed è proprio attraverso questa sovrapposizione di esperienze che si accorciano le distanze fra finzione letteraria e realtà soprattutto quando, in alcuni passi, il testo assume una funzione metaletteraria:
«Quando mi ha chiesto che tipo di romanzo stessi scrivendo io ho risposto che era una storia un po’ autobiografica, che si parlava di famiglie, di un’eredità non economica, ma affettiva, emotiva, esistenziale, un romanzo sulla memoria e su quello che rimane, ho chiuso il discorso dicendo Autofiction […]». (p. 110)
Biferali definisce il suo romanzo Autofiction: in effetti, Sono quasi pronto si presenta come un romanzo vero e schietto, come la penna del suo autore. Un libro da consigliare soprattutto a tutti coloro che, come il protagonista, si stessero ancora chiedendo: Ma io, in fondo, chi sono? Che cosa ci faccio qui?
Un romanzo sull’amore, sulla famiglia ma, soprattutto, sulla Memoria.
Perché, in fondo,
tutti noi per diventare veramente adulti e «per andare avanti abbiamo bisogno
dei nostri ricordi e di tornare nei luoghi delle nostre vite che ancora non
abbiamo risolto». (p. 24)
Federica Malara