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La montagna che dà rifugio: "La strangera", di Marta Aidala

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La strangera
di Marta Aidala
Guanda, agosto 2024

€ 18,00 (cartaceo)
€ 9,99 (e-book)

Qual è il nostro posto nel mondo? Dove ci sentiamo a casa? Quando ci accorgiamo di essere in sintonia con ciò che ci circonda? Spesso non è così facile trovare una risposta, soprattutto quando ci rendiamo conto che quella che finora abbiamo vissuto non è la vita che vogliamo. Cogliamo Beatrice, la protagonista di questo romanzo, La strangera, di Marta Aidala, in un momento come questo. Straniante, di riflessione.

O meglio, la incontriamo già un passo avanti. Perché Bea, studentessa a Torino, s'indovina un po' per le lunghe, la tesi nel cassetto che non ha alcuna premura di finire, una decisione l'ha presa ed è quella di lasciare la città, di mettere in pausa la vita condotta fino ad allora e di dare ascolto alla voce della montagna, antica passione. Contro il parere di tutti, dei genitori in primis che la vedevano già con la corona d'alloro in testa, Beatrice sceglie di "fare la stagione" in un rifugio. Ed è lì che ne facciamo la conoscenza, su in alta quota, mentre corre qua e là per la sala ristorante, tra una prenotazione da segnare in agenda e i tavoli da pulire o i tomini da ritirare in malga. I suoi compagni d'avventura, tutti uomini, sono il Barba, rifugista ruvido, scontroso, vagamente dittatoriale, ma ironico e pungente. Lo chiamano così anche se il mento è assolutamente privo di peli, tanto quanto la testa, lucida e pelata. Poi ci sono il cuoco, Daniele, e i due aiutanti, Berto e Gioele. La vita di Beatrice è scandita dai ritmi intensi del rifugio, non si può stare fermi, qualcosa da fare c'è sempre. Non c'è nemmeno il tempo di pensare. Ma nei rari momenti in cui la pressione si allenta Bea è felice, sente di essere finalmente a casa, di aver afferrato la sua dimensione, la sua vita. Le sembra di aver trovato ciò che stava cercando. 

E in questo la montagna gioca un ruolo fondamentale. Una montagna che Bea, nella vita precedente, aveva preso di petto, imparando a scalarla, diventando sempre più brava, veloce, competitiva. Fino a sentire dentro di sé uno strappo... non è così che va vissuta la montagna. Amarla vuol dire altro, significa fermarsi a sentirne la voce, lasciarsi incantare dalle albe e dai tramonti, rispettarla nei suoi tempi che sono lenti, solidi, non frenetici come quelli della città. Ma Bea è cittadina e quel soprannome, la strangera, la insegue, le dà sui nervi, lo detesta, la fa sentire quasi fuori posto anche se

avrei voluto rispondere ciò che avrei detto a tutti gli altri in seguito, che lì in montagna io ero straniera esattamente quanto loro. (p. 28)

Chi in montagna non è straniero per niente perché ci è nato e perché la montagna ce l'ha nel Dna, nel sangue e sulla pelle è Elbio, il pastore-malgaro timido, silenzioso che s'innamora di Bea. E, come in un gioco d'incastri, i due opposti si attraggono: lui quadrato e solido quanto lei eterea e irrisolta;  lui quasi fuori tempo, vincolato alle tradizioni, ai gesti antichi, quanto lei slegata dal suo mondo passato; lui certo di essere nel posto giusto, lontano anni luce da dubbi sul suo destino, quanto lei insicura e in cerca di un punto fermo; lui montanaro fin nel midollo, quanto lei cittadina, strangera. Nasce una storia fatta di silenzi, di timide carezze, un lento avvicinamento tra due mondi che più lontani non potrebbero essere.

Le pagine scorrono veloci tra le imprecazioni del Barba, che senza darlo a vedere si affeziona a quella ragazza venuta dalla città, ma piena di voglia di imparare e di lavorare, e i dialoghi che scandiscono il ritmo del romanzo, ricreando quel microcosmo irripetibile e unico che è il rifugio di montagna. Un luogo sospeso nel tempo e nello spazio dove si crea complicità e i legami si fanno più stretti... forse perché fuori le montagne incombono, fanno soggezione e ti fanno sentire piccoli. Già su queste pagine avevamo recensito un romanzo che aveva il rifugio come ambientazione, Dove ghiaccio attende, di Matteo Bertone (qui la recensione). In questo caso la magia del rifugio era descritta dal punto di vista del cliente. Aidala, invece, attingendo alla sua storia personale, ne parla con la voce di chi vi lavora. Ed è un punto di vista assolutamente originale e intrigante

Alla metà del romanzo Bea sembra aver trovato la propria dimensione, aver completato il suo percorso... ma la montagna non è salvatrice, non è sempre amica, non ha pietà, osserva chi l'attacca come un monolite dagli occhi di pietra, indifferente. E può capitare che chi la scala, anche amandola senza riserve, su quei tratti rocciosi perda la vita. Un incidente occorso a due alpinisti getterà Bea nello sconforto, togliendole tutti i precari punti solidi che si era andata costruendo. Bea capisce che la montagna, quella nella quale si era sentita finalmente accasata, in realtà presenta aspetti a lei sconosciuti, che la fanno sentire inadeguata, incapace di gestire gli eventi. 

Avevo creduto di essere riuscita a ricavarmi uno spazio tra gomitate e spintoni, notti insonni, servizi estenuanti [...]. Avevo imparato a rispondere a tono, a comprendere quel dialetto strascicato, a riconoscere i larici dagli abeti. Che la polenta per esser buona deve cuocere a fuoco lenti, che i vitelli nascono in autunno e il tempo è un matto che non risponde quando pronunci il suo nome, dirà sempre ciò che non ti aspetti. Che la gente lassù muore e lo devi accettare come una mela che cade dall'albero. Tutto mi era familiare, eppure non mi apparteneva più nulla. Per la prima volta mi sentii davvero strangera, senza patria, senza una casa a cui tornare. (pp. 298-299)

In più, il tradimento, se così vogliamo chiamarlo, di uno dei protagonisti maschili del romanzo verrà a darle il colpo di grazia e quella montagna che le aveva dato rifugio diventa una trappola, un cappio che sembra stringerla e soffocarla. Tutto frana, anche quelle che Bea aveva scambiato per certezze. Nemmeno la vita di Elbio, che le era sembrata così solida e ben piantata nel tempo e nello spazio, le sembra più darle le risposte che cerca. Riuscirà Bea a trovare quel posto nel mondo che sia davvero suo? La montagna l'aiuterà? Sarà una presenza femminile, in quel mondo tutto al maschile, a indicarle una strada perché in fondo «le montagne sono donne immense, eppure tante portano nomi di uomini» (p. 17) e forse era proprio per quello che Bea aveva scelto la Becca.

Con La strangera, Aidala si inserisce in quel filone di letteratura di montagna finora appannaggio quasi esclusivo di scrittori di genere maschile, con qualche eccezione, penso per esempio a Fioly Bocca. Quasi che affrontare le alte vette o anche solo parlarne sia affare da uomini. Ma basta ricordare un solo nome, quello di Antonia Pozzi, dall'autrice ricordata nell'esergo, per capire che non è così. Aidala, con questo che, tra l'altro, è il suo romanzo d'esordio, rivendica un suo posto in questo genere di letteratura e lo fa con un racconto di formazione perché la figura di Bea evolve, cambia a contatto con la montagna, con i "montanari", con un mondo lontano dal suo, con la natura. È un libro nel quale non succedono avvenimenti eclatanti, non ci sono colpi di scena, l'azione è ridotta al minimo, ma il movimento accade nell'animo della protagonista che si apre al cambiamento, all'apprendere, alla fiducia. È un libro di sensazioni, di sentimenti, di passaggi, un racconto nel quale la natura ha una parte fondamentale: la montagna è onnipresente ed è lei a dettare i tempi, le necessità, i ritmi. Non c'è nulla di poetico o di fintamente romantico nella montagna messa in scena dall'autrice, è la montagna nella sua essenzialità.

Tante le tematiche affrontate nel libro: il cambiamento climatico perché la montagna è in sofferenza, manca l'acqua, l'elettricità è sempre una scommessa (il Barba spegne la macchina del caffè, la mitica Cimbali, che consuma troppo, «se qualcuno te lo chiede, dì che il caffè se lo prendano quando scendono al bar della Gina», ringhia il gestore del rifugio, p. 83). Lo spaesamento dei giovani della GenZ che spesso cercano il proprio posto nel mondo e hanno bisogno di stimoli o spinte per riconoscerlo. La contrapposizione tra mondo di su e mondo di giù, tra il tempo della montagna e quello della città, queste due anime così divise che spesso faticano a dialogare. Da un lato il turista di città che spesso snatura la montagna cercando in cima ciò che trova in città, le comodità, il divertimento, da un lato il montanaro che a volte preme perché la montagna diventi più accessibile perché i turisti portano soldi. Ma che spesso vive lo strangero come un invasore. Ma se la montagna sopravvive e non si spopola, un certo ruolo il turismo ce l'ha pure. Insomma, un equilibrio sottile, un filo che si tende senza spezzarsi. Tutte queste tematiche si ritrovano nel romanzo di Aidala impunturate nella tessitura narrativa, tra le righe, senza teoremi o soluzioni preconcette.

Un buon esordio che sconta soltanto qualche lieve accenno di scuola narrativa, in certe metafore un po' azzardate, che a volte paiono scelte per stupire i lettori, ma in genere un romanzo dal ritmo narrativo abbastanza sostenuto, cosa tutt'altro che scontata considerato che non sono gli avvenimenti ad alzare il climax, dalla scrittura pulita, precisa e solida, senza troppe sbavature. Un libro che mette voglia di girare pagina e, una volta finito, di chiuderlo, aprire l'armadio e preparare uno zaino da 30 litri con antivento, borraccia e maglione.

Sabrina Miglio