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«Uomini e donne non sono altro che attori»: “Tom Lake” di Ann Patchett

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Tom Lake
di Ann Patchett
Ponte alle Grazie, aprile 2024

Traduzione di Michele Piumini e Valeria Gorla

pp. 492
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

A dare il titolo all’ultimo romanzo di Ann Patchett - una delle più apprezzate scrittrici statunitensi contemporanee, già finalista al Pulitzer con il precedente La casa olandese (Ponte alle Grazie, 2021) - non è, come potrebbe apparire in linea con un’ampia e consolidata tradizione letteraria, il nome di un protagonista (maschile), bensì un luogo (fisico) dei ricordi attorno al quale ruota l’intera vicenda narrata. Attraverso un sapiente gioco di alternanza tra passato e presente, infatti, il lettore ricostruisce a poco a poco la storia di Lara, sedicenne del New Hampshire approdata al teatro per caso - «io volevo insegnare inglese, arruolarmi nei Peace Corps, salvare la vita ai cani, cucire vestiti. Recitare non rientrava nella lista» (p. 27) - per poi uscirne profondamente mutata. 

E fu così che, tra l’uscita di scena di Emily e George e l’entrata in scena degli Emily e George successivi, girai la sedia. Per un attimo pensai di rimettermi a leggere Il dottor Živago, invece presi un modulo di registrazione. Non volevo fare l’attrice, era solo che sapevo di poter fare di meglio. Nome, diceva il modulo. Nome d’arte (se diverso). Inserii il mio nome: Laura Kenison. Oltre all’indirizzo, al numero di telefono e alla data di nascita, non avevo nulla da aggiungere. Impossibile spacciare il mio lavoretto pomeridiano da Punto e a Capo per esperienza teatrale. […] Piegai il modulo, lo infilai nel mio Pasternak e ne presi un altro. Stavolta scrissi L-A-R-A., eliminando la ‘u’ che i miei mi avevano dato alla nascita perché quella grafia mi sembrava più russa e mondana. (pp. 22-23) 

È il ruolo di Emily nella Piccola città di Thornton Wilder (vincitore del Pulitzer nel 1938) a condurla, passando addirittura per il debutto cinematografico tra le patinate e chiassose Los Angeles e New York, fino a Tom Lake, vivace centro di villeggiatura del Michigan settentrionale, noto per le sue stagioni teatrali estive, nonché potenziale trampolino di lancio per talenti emergenti. 

In termini di diversità culturale, scoprii che la stagione estiva di una compagnia teatrale del Michigan sperduta nel nulla era nettamente superiore sia all’Università del New Hampshire che a un backlot hollywoodiano. Non che ci volesse granché, ma Tom Lake vinceva comunque. Mentre ci dirigevamo ognuno alla sua prova, somigliavamo quasi a una città americana. La maggior parte degli attori veniva da Chicago a Detroit, qualcuno addirittura da Washington e Pittsburgh. Le audizioni per la stagione estiva - quelle che mi ero risparmiata - attiravano gente dalle scuole di teatro e dalle compagnie regionali. Gli attori erano sempre a caccia di lavoro: forse una vita a Tom Lake non era il loro sogno, ma erano comunque felici di cambiare aria per un’estate. (pp. 139-140)

In questa sorta di oasi artistica e naturale, l’ormai ventiquattrenne Lara, col personaggio di Emily cucito addosso quasi come fosse il suo più intimo alter ego, incontra la futura stella del cinema Peter Duke, sfrontato e ambizioso collega di talento che riempie i giorni e le notti di quell’estate che sembra non avere mai fine.
 
Tom Lake si rivelò di una bellezza devastante. C’era un enorme anfiteatro coperto circondato dai prati per i musical, ma avevano anche uno spazio teatrale per pièce come Piccola città e Pazzo d’amore. C’erano campi da tennis con un circolo che serviva tè freddo e tramezzini. Una manciata di edifici incantevoli - alcuni trasformati in uffici amministrativi e alcuni in alloggi per attori, costumisti e tecnici, mentre altri erano semplici case di villeggiatura - disseminati sulla riva di un lago mozzafiato. Alberi da frutto in fiore, sentieri serpeggianti e colline ondulate, come se qualcuno avesse ritagliato fotografie da una pila di riviste per incollare le migliori su una sola pagina. A poco più di un chilometro c’era una cittadina che viveva principalmente dei turisti estivi che prendevano una stanza in uno dei due alberghi, cenavano e trascorrevano l’indomani mattina nei negozietti prima di arrivare a Tom Lake con i biglietti del teatro. I più ambiziosi si facevano una passeggiata in attesa dello spettacolo e tornavano con la navetta. Sfoggiando magliette e berretti di Tom Lake, alcuni noleggiavano una canoa per pagaiare davanti al trampolino e inoltrarsi nel lago. Era un ecosistema fragile, come tutte le cittadine e le compagnie teatrali, ma per quanto potessi vedere funzionava. (p. 92) 

A dire il vero, l’estate non è soltanto quella di molti anni prima a Tom Lake, ma è anche quella del presente, in cui una Lara quasi sessantenne, da tempo felicemente sposata con un altro uomo, rievoca il proprio passato lontano per le tre figlie nel fiore dei vent’anni. Sono loro le vere destinatarie del racconto, tanto incuriosite, se non ossessionate, dalla mitica presenza della leggenda cinematografica nella vita della madre - «ho fatto la pace ormai da tempo con il famoso attore Duke, ma i miei sentimenti per la persona che entrò nella mia stanza quel giorno a Tom Lake sono più complicati. Mi ero ripromessa di non pensarci più, invece ci sto pensando proprio ora» (p. 102) - quanto scosse dalle circostanze all’interno delle quali il suo racconto prende forma. 

Difatti, la triste ragione che le ha viste riunirsi per la raccolta delle ciliegie nel frutteto di famiglia, intente ad ascoltarla intessere ricordi e svelare piccoli grandi segreti, riguarda l’evento che ha sconvolto anche le nostre vite negli ultimi anni, ovvero la pandemia di Covid-19. Dunque, ciò che ha impedito a Lara e al marito di trovare la manodopera necessaria ha però reso possibile un’inaspettata ricongiunzione del nido familiare, tanto da farle sospirare, malgrado tutto: «la gioia è un sentimento inopportuno in questi mesi, me ne rendo conto, ma al cuore non si comanda» (p. 36). Così, l’estate a Tom Lake si interseca con «quest’estate che rischia di essere presa per la fine del mondo» (p. 76) e, mentre gli interrogativi sul passato vengono sciolti uno ad uno - proprio come quei frutti che «vanno colti a mano e devono staccarsi a regola d’arte» (p. 60) - alle ansie delle figlie, paralizzate dal lockdown causato dalla pandemia, si contrappongono le mille potenzialità della gioventù trascorsa della madre. 

Le mie ex compagne di liceo erano donne sposate ormai. Avevano una casetta nel New Hampshire con divano e televisore, forchette, coltelli e cucchiai, magari un figlio o due. Gli anni che avevano passato a tappezzare la camera dei bambini io li avevo trascorsi in uno studio arredato a Los Angeles, un posto in cui non mancava nulla: lenzuola, asciugamani, scolapiatti. Avevo soldi ma non avevo idea di come spenderli, perciò non li spendevo. Mi piaceva la leggerezza della mia vita, la sensazione che sarei potuta partire l’indomani per andare ovunque avessero bisogno di me: New York, Michigan. Escludendo i vestiti invernali, che erano rimasti nell’armadio della stanza degli ospiti della nonna, i miei beni materiali corrispondevano grosso modo al contenuto di quelle due borse. Non che fossi un’attrice di successo, ma tutte quelle ragazze conoscevano la mia storia. Forse una versione romanzata della mia storia, ma mi invidiavano comunque. Al loro posto mi sarei invidiata anch’io, perché quella camera dimenticabile con vista indimenticabile in mezzo al nulla del Michigan era la quintessenza della libertà e delle possibilità. (pp. 93-94)

Come la giovane inquieta, rimasta abbagliata da Duke e dalla recitazione a Tom Lake, sia diventata la donna risoluta e appagata al fianco di Joe Nelson - un uomo (il regista, dopotutto) la cui famiglia possiede quella fattoria da ben cinque generazioni - è un piacere che si lascia scoprire a mano a mano, in un gioco di specchi quasi metateatrale, dove i riferimenti letterari si sprecano - da Il mago di Oz, a Moby Dick, da Re Lear a Middlemarch , senza dimenticare quel dottor Živago iniziale e, ovviamente, Il giardino dei ciliegi di Čecov che ne ridefiniscono rispettivamente nome e identità. 

In effetti, è proprio nel “suo” giardino dei ciliegi che Lara trova la propria dimensione, rinsaldata nella quiete e nell’affidabilità di una scelta quotidiana, fatta di piccoli riti dall’autentico senso di comunità e appartenenza, giacché «in un appartamento a New York puoi passare anni senza conoscere le persone che abitano a un metro da te, ma se vivi in un frutteto del Michigan finisci per chiamare ‘vicino’ ogni persona nel raggio di chilometri. Conti su di loro e fai conoscenza con i loro figli, il loro raccolto, le loro macchine e i loro cani» (pp. 56-57). Analogamente a Tom Lake, anche la fattoria dei Nelson abbraccia la natura placida e maestosa del Michigan settentrionale, dal lago agli alberi da frutto, all’interno di un circolo dalle radici profonde: «la vita era così all’epoca, seppellivi i tuoi figli, tuo marito e i tuoi genitori alla fattoria dalla quale non si erano mai allontanati e mai avevano desiderato allontanarsi» (p. 59). 

Dopo La casa olandese, Ann Patchett dà prova, ancora una volta, di saper maneggiare con notevole efficacia e sensibilità le storie familiari (non sarà un caso se la lettura dell’audiolibro originale è stata affidata a quella fuoriclasse in materia di Meryl Streep), gestendo con facilità i piani temporali e i vari “mondi” che attraversano la storia che si trova a scrivere. L’intreccio che ne deriva si muove tra lo “spettacolo” della rievocazione del passato e la “messinscena” della quotidianità del presente, tra la finzione teatrale e la “recita” della vita vera, quella in cui ogni membro della famiglia ricopre il proprio ruolo con la dedizione dimostrata da Lara, capace di guardarsi alle spalle senza l’ombra del rimpianto, pacificata dalla convinzione delle proprie decisioni.  

È una semplice quanto inspiegabile verità della vita: col tempo ne dimentichiamo gran parte. I momenti dolorosi che eri sicura di non poter cancellare dalla memoria? Ora non ricordi più con esattezza a quando risalgono, mentre le parti più entusiasmanti, le gioie da far scoppiare il cuore, si sono sgretolate e disperse per poi trasformarsi in qualcos’altro. A quel punto i ricordi cedono il passo a gioie diverse e colori più intensi, ma incredibilmente anche questi vengono spazzati via, finché un mattino non ti ritrovi a raccogliere ciliegie con le tue tre figlie adulte mentre tuo marito passa di lì in trattore, e tu capisci di non aver mai desiderato altro al mondo. (p. 145)

Solido e lieve al contempo, Tom Lake è un romanzo che conquista per la scorrevolezza della sua scrittura - impreziosita da ampie descrizioni immerse nella bellezza della natura - e per il modo avvolgente in cui rinfranca il lettore su una grande lezione della vita: soltanto ciò che conta davvero è in grado di sopravvivere alla prova del tempo. È questo che apprendiamo dalla madre delle sorelle Nelson e, mentre l’intenso profumo dei ciliegi e la punta lievemente acre della polvere del palcoscenico sembrano sollevarsi dalle pagine per adagiarsi con la dolce malinconia di un temporale estivo, rimaniamo incantati ad ascoltare la storia della matriarca di una famiglia che è diventata un po’ anche la nostra. 

Chiara Tolomei