Al Jazeera trasmetteva un video di Osama Bin Laden. Parlava del gruppo che aveva attaccato le torri di New York: “Prego Dio di accogliere questi giovani tra i martiri e i profeti. Hanno fatto un grande lavoro. Hanno restituito la dignità ai musulmani. Hanno dato agli Stati Uniti una lezione che non dimenticheranno”. […] [Osama Bin Laden] Aveva abbattuto la porta della paura per permettere ai giovani musulmani di seguire il suo esempio. Mi immaginai insieme a lui nelle montagne di Tora Bora con un’arma in pugno, vestito all’afghana. Laggiù, avrei guardato le stelle e avrei dormito nelle grotte. Niente di più. I media mi avrebbero descritto come un criminale e, forse, come il terrorista più piccolo del mondo. (pp. 116-117)
C’è chi sogna di diventare un cantante per emozionare il pubblico, chi un medico per salvare vite umane, chi il calciatore più corteggiato (e ben pagato) del calciomercato, ma c’è anche chi sogna di combattere in nome di Allah per terrorizzare gli infedeli, in altre parole sogna di diventare un jihadista. Un’aspirazione che possiamo immaginare, visti i tempi che corrono nel Medio Oriente, mai sopita tra i ragazzini e i giovani che si sono visti togliere la famiglia, la scuola, il futuro e la dignità.
Omar Youssef Souleimane, giornalista e poeta siriano, rifugiato in Francia in seguito ai disordini nel suo Paese durante la guerra civile del 2011, confessa nella sua autobiografia, Il piccolo terrorista, che per un breve periodo di tempo desiderava imitare Bin Laden e tutti quei “coraggiosi martiri” che avevano vendicato l’Islam uccidendo gli infedeli, in primis gli ebrei, dichiarati nemici nel Corano, e poi gli americani.
La narrazione procede in prima persona e si divide in due blocchi temporali: il primo è relativo all’acquisita condizione di rifugiato siriano in Giordania, da cui si sposterà per andare in Francia, e il secondo, più corposo, è un lungo flashback sulla sua infanzia e adolescenza in cui conosceremo i genitori di lui, entrambi dentisti, leggeremo dei suoi quattro anni di studi in Arabia Saudita (a Riyad si trovava la struttura dove aveva trovato lavoro la madre) e della crisi religiosa che lo porterà a scardinare piano piano i fondamenti della religione salafita - altra “variante” dell’Islam - fino diventare completamente apostata. Si tratta un processo di crescita, umana e intellettuale, fortemente tormentato dai dubbi e dalle domande, dentro il quale lo scrittore ci trascina rendendoci partecipi di, per usare le parole della traduttrice Giorgia Lo Nigro nella Prefazione, un percorso di decostruzione e ricostruzione della sua identità. Souleimane accorda armonicamente gli ingredienti del libro, unendo, in un fluire continuo che assicura omogeneità alla tenuta e al tessuto narrativo, la sua biografia agli eventi storici che si verificarono in quell’arco di tempo e ai vari precetti e pratiche dell’Islam, come il digiuno, la preghiera, l’hajj, cioè il pellegrinaggio alla Mecca e i diversi hadith di Maometto che costituiscono una sorta di codice di comportamento da seguire.
In Arabia Saudita Omar fa esperienza con una realtà difficile: verrà ammesso nella scuola pubblica perché proveniente da famiglia credente salafita e non avrà molti amici, perché i siriani non erano ben visti. Apprendiamo da queste pagine quanto, rispetto ai nostri programmi scolastici dove le lezioni di religione oltre a essere limitate a un’ora a settimana non sono obbligatorie per gli studenti, nella società musulmana sia invece la disciplina preponderante:
Avevo quattro libri di religione: la giurisprudenza, l’hadith, l’interpretazione e il monoteismo. Le altre materie – matematica, scienze naturali, letteratura – erano molto meno impegnative. (p. 69)
Durante l’adolescenza tuttavia il nostro protagonista comincerà a trovare diversi anelli che non tengono in quella sequela infinita di imposizioni, imperativi trasmessi di famiglia in famiglia in maniera acritica, accettati passivamente come se si trattasse di una preziosa eredità identitaria. Dalla sua prospettiva di adolescente che comincia a scoprire la propria sessualità gli pesano tutte quelle regole e quelle mortificazioni del corpo e dello spirito previste dal Corano e dalla sunna (cioè l’insieme di tutti i detti e i fatti del Profeta): le docce per purificarsi dopo atti o pensieri impuri, i digiuni per tenerli lontani, le minacce di punire nell’aldilà chi ha trasgredito la legge nel fuoco della Geenna. Egli trova senza senso l’usanza in base alla quale l’uomo può sposarsi con più donne, poiché una sola moglie non basta, dal momento «non capisce i bisogni sessuali degli uomini, che una sola donna non può soddisfare» (p. 184). Nella realtà in cui vive dove la donna oltre a lavorare e a sostenere economicamente la famiglia, si occupa dei figli e del benessere di tutti, considera inconcepibile il precetto secondo cui la moglie disobbediente deve essere picchiata e corretta dal marito.
Ogni volta che litigava con mia madre, mi chiamava per ripetere l’hadith del Profeta: “Le donne mancano di ragione e di religione” e poi aggiungeva: “In tutta la grande storia dell’Islam, nessuna donna ha mai occupato il ruolo di dirigente, medico o architetto. Il loro posto è a casa a crescere i bambini”. Seguiva i precetti di mio nonno paterno, che aveva costretto le figlie a lasciare la scuola e restare a casa fino al matrimonio. Ma se mia madre non ci fosse stata, la famiglia si sarebbe smembrata. Lei per noi rappresentava la libertà, la pazienza, la tenerezza e la serietà. Invece, se mio padre se ne fosse andato, non ci sarebbe cambiato niente, a parte il reddito. (pp. 184-185)
Ho trovato molto interessanti le pagine in cui lo scrittore racconta del suo pellegrinaggio a La Mecca, uno dei cinque pilastri dell’Islam, un dovere che ogni buon musulmano deve compiere almeno una volta nella vita. Lo scrittore descrive non solo le diverse tappe di questo percorso di fede, ma ci rende partecipi di come smonta via via anche il senso di tutti quei gesti rituali, quei racconti di sacrifici che hanno reso sacri quei luoghi e che ascolta, ma che trova ormai superati, appartenenti a un’epoca troppo lontana per essere ancora applicati.
Pagavamo care quelle circonvoluzioni, quando invece avremmo potuto fare la stessa cosa intorno a qualsiasi altro edificio di una qualunque città. Qual è la differenza? Allah è presente solo alla Mecca? (p. 151)
In questa esperienza il nostro giovane Omar trova altre occasioni che mandano in crisi la sua fede, tuttavia le pagine “più forti”, che ho trovato inedite, sono altre. Omar, il nostro scrittore e narratore interno, comincerà a fare delle ricerche su internet per trovare le risposte alle sue domande sulla fede, sull’essere dei combattenti mujahidin e sulle ricompense a loro riservate in paradiso e avrà una conversazione illuminante (anche per il lettore) con un certo Muhammad99: dalla loro chat verranno fuori la complessità e la stratificazione dell’Islam. Omar gli confesserà di sentirsi ormai un apostata, un rinnegato, proprio, paradossalmente, a causa della sua profonda conoscenza del Corano e della sunna: «Di quale islam parli? Il salafismo dell’Arabia Saudita o il vero islam?». «Perché? Esistono più islam?». «No, ce n’è solo uno, ma il salafismo non lo rappresenta» (p. 187). Muhammad99 gli spiegherà che il salafismo è un movimento estremista molto vicino a quelli che propugnano un Islam politico e quindi, finché ci sarà questa ingerenza delle moschee nei ministeri esisterà anche la violenza e il terrorismo.
«Sì, ma il musulmano deve credere a tutto ciò che è contenuto nel Corano. Come fare se non eliminando i versetti che incitano alla violenza e che limitano la libertà individuale? Gli imam devono decidersi ad allontanare l’islam dal potere e relegarlo nelle moschee. Purtroppo è impossibile: Muhammad ha ordinato di seguire la sua parola senza cambiare una virgola. Conosci l’hadith: “Ogni novità è un’innovazione e ogni innovazione è uno smarrimento?”».
«Sì, ho studiato la shari‘a a Damasco, ma stai saltando una parte, quella dove il Profeta invita a seguire la religione che ha unito le tribù arabe. Senza l’islam, avrebbero combattuto fino alla fine dei tempi e sarebbero rimaste nell’oblio».
«Ma noi ad oggi non abbiamo dato niente al mondo, a parte il sottosviluppo».
«È perché ci siamo allontanati dall’islam».
«Ma no, è perché gli siamo rimasti fedeli! Il motto degli arabi è sempre stato “l’islam è la soluzione”, ma è ormai tempo di dire “l’islam è il problema”». (p. 189)
Queste pagine sono assolutamente eloquenti. Il piccolo terrorista è una biografia, è una testimonianza autentica di un giovane che educato e cresciuto secondo i precetti dell’Islam, attraverso un difficile travaglio interiore, approda all’ ateismo senza nessun rimorso. Con una penna limpida ed elegante, Souleimane racconta anche la storia di un giovane, come tanti ormai che provengono da quelle terre martoriate che sembrano destinate a non vedere mai la pace, che trova in un nuovo Paese, la Francia, la sua speranza e il suo futuro, nonostante l’attentato alla sede di Charlie Hebdo del 2015, che lo porta a riflettere sulla sua antica vocazione di jihadista, per fortuna mancato. Chissà se come il nostro Omar esistano altri giovani provenienti da famiglie salafite che, senza necessariamente diventare apostati, si interroghino sulla complessità dell’Islam e sul vero concetto di jihad, che non traduce la “guerra al nemico infedele”, ma lo sforzo per migliorare sé stessi e la propria spiritualità? Chissà se incontreranno anche loro, magari tramite la connessione a internet, il loro Muhammad99 che farà aprire loro gli occhi. Questo libro è un documento interessante non solo per lo stile, ma anche e soprattutto per ciò che racconta al lettore non islamico. È un libro che racconta un tormentato cammino interiore verso la consapevolezza della complessità del mondo, non solo musulmano.
Lascio il Medioevo che controlla il Medio Oriente per arrivare in un’epoca che ancora non conosco. Sono uno straniero in partenza verso l’ignoto. (pp. 42-43)
Marianna Inserra
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