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Anita e la paura di nominare l'innominabile: un piccolo viaggio dentro l'anoressia per l'esordio di Beatrice Sciarrillo

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In trasparenza l'anima
di Beatrice Sciarrillo
66thand2nd, settembre 2024

pp. 176
€ 16 (cartaceo)
€ 10,99 (e-book)

Katia mi slega il laccio emostatico, mi pulisce con batuffoli di cotone e mi aiuta ad alzarmi dalla poltrona. Non appena sono in piedi, le ginocchia mi si fanno pesanti, instabili, non distinguo più nessun contorno nella camera. Per fortuna le infermiere non se ne accorgono, altrimenti mi obbligherebbero a rimanere per ore sdraiata sul letto e a bere l'acqua con lo zucchero. Cerco di riprendermi in fretta, sorrido per nascondere il giramento di testa.

«Anita». Maria mi richiama mentre sto per uscire dall'infermeria, mi raccomanda di bere durante il giorno, e soprattutto prima di andare a dormire. «Altrimenti domani ti devo bucare la vena del piede» dice Katia ridendo. Annuisco, ma so che nel mio corpo non entrerà neanche un goccio d'acqua. Ritorno in stanza, felice di non avere sangue nelle vene. (p. 45)

Beatrice Sciarrillo, classe '98, esordisce con questo romanzo che entra in quel filone di storie che tratta NN Editore, ad esempio, con la collana Le Fuggitive (ricordo di aver trovato una narrazione simile in Affamata di Melissa Broder) oppure in romanzi che raccontano la vita di alcune donne all'interno di cliniche psichiatriche (come Canta ancora, ragazza di Jacqueline Roy).
La protagonista di Sciarrillo (ho letto in più articoli che la storia riprende l'esperienza reale dell'autrice, anche se non cede a chiamarla autobiografia) è Anita, una ragazza universitaria legatissima a sua sorella Marta, un po' meno ai genitori. Anita è anoressica, ma lei rifiuta di nominare questa parola, rifiuta - come tutte le persone che soffrono di questa malattia - persino di pensarci. Anita continua a ripetersi che non è malata, che sta bene, che tutti mentono e la vogliono imbrogliare.
Quella cosa che ha dentro è preziosissima, è la parte più pura di sé e teme che le persone che la circondano non capiscano e vogliano portargliela via.

Dunque, quando i genitori la costringono a ricoverarsi in una clinica, Anita soffre perché è convinta di stare bene, di essere vittima di un complotto.
Rifiuta di mangiare, di assumere i medicinali, di parlare. Tutto ciò che vuole è scomparire, annientare quel corpo che le pare enorme, succhiargli via tutta la vita. In una scena del romanzo, quando un'infermiera prova a prelevarle del sangue da una vena, Anita è al settimo cielo perché il sangue non vuole uscire. Le sembra una vittoria: il suo corpo le dimostra finalmente di essere morto, di non avere nulla da trattenere.
Allo stesso modo, quando è costretta a mangiare, a bere acqua, quando arrivano ad alimentarla con un sondino, prova le pene dell'inferno: conta ossessivamente le calorie, i passi che fa in corridoio, lo stato del gonfiore del suo stomaco, pensa e ripensa continuamente a espellere quel "veleno" dal suo corpo. In più, un leitmotiv, quasi un tic, che torna ripetutamente nel romanzo, rifiuta di sedersi.

Nella clinica ci sono altre ragazze come lei: Sofia, Federica, Giada, tutte - nessuna esclusa - perfette tessitrici dei modi più fantasiosi e persino brillanti per non mangiare o, se costrette, per vomitare.
E c'è anche Flavia, quello che a me pare essere il personaggio-specchio di Anita, la sua versione irrecuperabile: una paziente che entra ed esce dalla clinica da più di vent'anni, che non riesce a guarire e che sembra ossessionata da lei. Anita, per certi versi, ricambia - senza sapere perché - questo attaccamento morboso, ne è attratta e contemporaneamente respinta. Potrebbe anche essere una proiezione della sua mente, una sorta di grillo parlante o di coscienza sotto forma di una donna di cinquant'anni allo sbando.

Seppellita sotto un telo bianco, e dissotterrata una mattina a settimana, la bilancia è una creatura spietata; indifferente al nostro terrore emette la sua sentenza, senza concedere carezze né consolazione. Abbassiamo gli occhi a terra, non ci guardiamo. Ognuna di noi conosce il desiderio dell'altra: che il numero sullo schermo sia più basso della volta precedente e di quello che comparirà quando a salire sulla stessa bilancia sarà un'altra di noi. Nessuna ha il coraggio di ammetterlo, nessuna lo ha mai ammesso - neanche Flavia ne avrebbe la sfrontatezza - ma ogni ragazza del reparto ambisce a essere la più magra, quella che mangia di meno e cammina di più, la più malata, in definitiva la più vicina alla morte. Non abbiamo un nome, vogliamo essere solo un numero. (p. 130)

Se il romanzo di Broder controbilanciava la narrazione disturbata della protagonista con un secondo personaggio giocoso e appositamente felice di mangiare, qui Anita non ha un appoggio, uno scarico emotivo: l'unica che potrebbe aiutarla, almeno nei pensieri, è la sorella Marta; ma Marta sa che sua sorella è davvero malata e quindi, pur soffrendo per lei, non può fare niente. Ciò che di più vicino all'affetto di sangue è proprio Flavia, tossica eppure indispensabile

L'abbandono è uno dei moventi della malattia: ci penserà Anita a raccontarlo, tra i denti, senza lasciarsi andare mai del tutto.
La scrittura dell'autrice si adegua al tono della storia: fredda, minimale, arrotonda le emozioni nascondendole sotto un panno bianco, un camice da ospedale. In questo, sento un po' di mancanza di emozione, come se l'autrice si fosse trattenuta, come se non riconoscesse la storia di Anita come interamente propria. E probabilmente è così, non deve essere semplice tirare fuori da sé (e qui abbiamo una doppia simbologia che riprende ancora una volta le gestualità della malattia) una vicenda dolorosa e tanto intima. 

Molto interessante però il soffermarsi di Sciarrillo sul binomio corpo-specchio, sullo sfasamento che distorce lo sguardo e che, in termini patologici si chiama dismorfofobia, ma l’autrice sceglie di arricchire ponendo delle domande a se stessa e a noi: chi siamo quando ci guardiamo allo specchio? Qual è la vera rappresentazione di noi stessi, quella nella nostra mente o quella che ci viene mostrata riflessa? E perché le due, se sono la stessa cosa, per alcune persone non coincidono? Questo è un tema che mi sta molto a cuore e sono felice che l’autrice l’abbia trattato con una certa delicatezza.

Il romanzo piacerà però molto a quei lettori e lettrici che prendono il corpo come scusa per scavarsi dentro, per negare il suo posto nel mondo, e come tale - come diceva Foucault, che il corpo ci permette di capire che occupiamo uno spazio e che siamo vivi - come simbolo di appartenenza a questa terra, l'appartenenza di diritto anche a esistere, in qualsiasi modo e forma.

Lo consiglio a chi ama, come ho già detto, la collana Le Fuggitive, o a chi piace la scrittura dura di Annie Ernaux (per chi non lo sapesse, l'autrice soffriva di bulimia) o a chi è piaciuto La solitudine dei numeri primi di Giordano.

Debora D'Addetta