Il 20 settembre 1999, alle undici e ventidue del mattino, J. Michael Fay si mise in marcia da un piccolo avamposto e si addentrò nella foresta, in una remota area settentrionale della Repubblica del Congo, per intraprendere una lunga spedizione a piedi particolarmente ambiziosa. (pp. 24-25)
Inizia così
il primo degli articoli che David Quammen scrive per il National Geographic,
avviando una prosperosa collaborazione che, dal 2000, dura ancora tutt’oggi.
Tutto parte da una telefonata che Quammen – divenuto poi famoso per quel saggio
dal sapore di vaticinio che prende il nome di Spillover (Adelphi, 2014),
nel quale ha descritto il fenomeno del “salto” di un virus dal mondo animale a quello
umano – riceve nel lontano 1999. È Oliver Payne, editor della più importante
rivista naturalistica, e sta chiedendo a Quammen di accompagnare il dottor Michael Fay in
un viaggio a piedi attraverso l’Africa. Nella compagnia sarà presente
anche l’amico di Quammen, il fotografo Nick Nichols.
Megatransect – questo il nome della
spedizione – è un progetto ambizioso: attraversare luoghi inesplorati,
selvaggi, a volte pericolosi e pieni di animali anche feroci ma soprattutto di
insetti, batteri, virus (fra cui quello dell’Ebola). L’occasione però è ghiotta
e, dopo un primo tentennamento, Quammen accetta.
Quel viaggio del 1999 sarà solo il primo di una lunga serie. Quammen si ritrova, nel corso degli anni, in Gabon, Niger, Kenya, Tanzania, ma anche nei luoghi più inabitati della Russia o dell’America Latina. La scrittura di Quammen – che conosciamo per Spillover, si è detto, ma forse ancora di più per quel Senza respiro (Adelphi, 2022) che tanto bene ha descritto la parabola del Covid-19 – è evocativa, colorata e in grado di rendere bene il senso di minaccia e fascino costante che si può sperimentare frequentando luoghi lontanissimi dalla civiltà. Poiché gli articoli sono stati tutti aggiornati in vista della pubblicazione di questa antologia, nel cappello introduttivo di ogni pezzo l’autore ha potuto inserire riflessioni di carattere ecologico anche di una certa rilevanza. Poter guardare indietro e comprendere come le cose siano cambiate negli anni, come la natura selvaggia sia sempre più in pericolo nonostante da decenni gli scienziati stiano lanciando continui allarmi, è per Quammen – e per tutti noi – una grande opportunità di riflessione.
Tutto il
libro in realtà lo è. Nella prefazione l’autore lascia intendere la chiave di
lettura con la quale affrontare gli articoli che seguiranno. Questa chiave di
lettura prende avvio da un libro del 1967, che Quammen definisce sconosciuto ai
più ma fondamentale all’interno del movimento ecologista conservazionista. Si tratta
di Theory of Island Biogeography di Robert H. MacArthur e Edward O.
Wilson, nel quale si approfondisce il concetto di ecosistema e si spiegano i
processi alla base della conservazione di un determinato ambiente. Molto
ruota attorno a un equilibrio che uno specifico luogo è riuscito a raggiungere
dopo centinaia di migliaia di anni, e che spesso l’intervento dell’essere
umano riesce a distruggere nel giro di poco tempo. Questo libro del 1967,
afferma Quammen, ha previsto con grande lucidità lo stato attuale delle cose:
la crisi climatica, la perdita di biodiversità, il surriscaldamento globale.
È in questa ottica che bisogna leggere gli articoli di Quammen. Certo, presi singolarmente sono solo resoconti di viaggi, dispacci di luoghi distanti in tempi distanti. Ma presi insieme, accomunati da questo intento conservazionista, sono qualcosa di più. Da lettori, accompagniamo Michael Fay, Nick Nichols e David Quammen in viaggi che hanno il sapore di qualcosa di perduto e non recuperabile, un mondo forse più autentico e decisamente fragile, che rischia di scomparire sotto i nostri occhi, già mentre leggiamo le avventure di un gruppo di persone intente a cercare un modo per uscire da una foresta che, forse già non esiste più.
David
Valentini
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