Cose vive
di Munir Hachemi
La Nuova Frontiera, luglio 2024
Traduzione di Serena Bianchi
pp. 144
€16,90 (cartaceo)
€10,99 (ebook)
Per le parole chiave che riassumono il contenuto di Cose vive, romanzo d’esordio di Munir Hachemi, vedi, nell’enciclopedia Treccani, alle voci “capitalismo”, “allevamenti intensivi”, “disgusto”, “rabbia”, “razzismo” e forse “disperazione”.
«In sostanza, questo testo è un libro solo nella misura in cui tutto è un libro. Niente di più. Non c’è intenzione, soltanto narrazione. Il grado zero dell’ornamento. Se farete uno sforzo e riuscirete a leggerlo così, io potrò raccontarvi la mia storia, quella vera, ciò che è successo» (p. 11). Nelle prime pagine del libro, l’autore tiene a ricordarci che ciò che sta per raccontare è la verità, e nient’altro. Con le parole di Philippe Lejeune, saggista francese il cui oggetto principale di studio è l’autobiografia, potremmo dire che Hachemi stringe col lettore un patto autobiografico: un’ammissione che ciò che ci sta per svelare e raccontare è stato vissuto da lui in prima persona e corrisponde al vero, senza alcun ricorso ad abbellimenti estetici. Si potrebbe, infatti, definire questo libro un’autobiografia, anche se la vicenda narrata non è quella di una sola persona, ma di un gruppo di persone, elemento che farebbe avvicinare, in questo caso, l’autobiografia alle memorie, in cui il narratore si fa in qualche modo portavoce di una condizione comune. Il termine ombrello “autofiction”, già utilizzato – forse impropriamente – per definire quest’opera, risulta avere poca aderenza con il libro, soprattutto se pensiamo che una delle caratteristiche principali dell’autofiction è proprio l’autoriconoscimento, da parte dell’autore, del diritto a ricorrere alla finzione, diritto sicuramente non rivendicato da Hachemi: «ci sono voluti sei anni perché il cadavere della finzione – in putrefazione dentro di me fin da quei mesi passati nel Sud della Francia – tornasse a essere polvere, permettendomi così di raccontare ciò che è successo davvero» (p. 20).
G., Ernesto, Álex e Munir (ecco l’identità autore-narratore-personaggio) sono quattro amici spagnoli che decidono di andare a lavorare nel Sud della Francia per la vendemmia. Dapprima entusiasti di questa nuova avventura, il loro slancio propositivo viene presto mortificato quando vengono a conoscenza di un fatto banale quanto prevedibile, se pensiamo alla crisi climatica che da decenni ha avvolto il nostro mondo: a causa della siccità non ci sarà nessuna vendemmia. Ma ormai i quattro sono arrivati lì, hanno steso i loro quattro stracci in un campeggio dove si faranno presto odiare, e decidono di rimanere ad Aire sur l’Adour facendo altri lavori. Non hanno idea delle atrocità che li attendono negli allevamenti intensivi di polli e mais.
Alle parole chiave citate all’inizio si aggiungono dunque queste, mantenute in francese anche nella traduzione di Serena Bianchi: “poulets”, “canards”, “cailles”, “maïs”, “champignons”. Così i quattro amici abbandonano l’idea dei filari della vite per addentrarsi nel vivo degli allevamenti intensivi di polli, lavoro che pagina dopo pagina inizierà a togliere la capacità di parola per lasciare spazio a sguardi nel vuoto e progressiva disperazione innaffiata d’alcool nel caldo rovente dell’estate francese, cui si affidano nella speranza che possa aiutarli a dimenticare.
Luci fluorescenti regolano i cicli di vita degli animali. Li stimolano affinché depongano le uova e li mandano a dormire quando non ce la fanno più. In questo mercato delle cose vive – in cui anche noi lavoratori facciamo parte della merce – l’unico modo per misurare il tempo è un fischio che si sente ogni tot (ho saputo poi che era ogni venti minuti), a cui segue un enorme scarico di enormi quantità di mais dentro a una specie di grondaia, dalla quale i polli si alimentano. Li ingozzano di luce e mais, perché vivano diversi giorni in un giorno e diverse vite in una vita. […] A volte sentiamo una zampa o un’ala spezzarsi e Michel si mette a ridere, apostrofando il pollo con un insulto che per via dello scafandro non riesco a sentire. Mi viene da odiarlo, ma poi guardo gli altri – di gran lunga peggiori – e alla fine posso solo odiare tutti loro, che allo stesso modo (presumo) stanno scaricando il proprio odio sui polli. La catena finisce lì: un pollo non può odiare. (pp. 70-71)
E così, alternando pagine di racconto retrospettivo a trascrizioni delle pagine di diario originali di quei mesi trascorsi in Francia, l’autore fa una cosa semplicissima: ci rende consapevoli. E lo fa con brutalità e crudezza, a volte trascinandoci in descrizioni disgustose, e a noi verrebbe da dirgli “dài, non serve, è un romanzo no?”, ma invece serve eccome, e la realtà non si piega alle condizioni della letteratura, per dirla come farebbe Hachemi. Una scrittura che, nell’urgenza del vero, ricorda un po’ le memorie dei soldati della Prima guerra mondiale, quando descrivevano la loro quotidianità al fronte, fatta di attese logoranti e pidocchi che laceravano le carni.
Creare consapevolezza, oltre ad essere necessario è, nel particolare dei nostri giorni, una forma di coraggio, perché viviamo in un mondo che sembra guidarci sempre lontano delle questioni cruciali che abitano e interrogano i nostri giorni (e qui penso alle parole chiave di apertura). Siamo abituati a muoverci in massa, ci hanno voluto così, a volgere lo sguardo sempre altrove, a non soffermarci sull’essenziale. Con Cose vive, l’autore ci costringe in una stanza con le luci al neon, ci fa sedere e ci fa pensare insieme a lui che anche noi siamo merce, e che «tra le ‘povere bestie’ cui ho pensato vedendo l’allevamento, ci siamo anche noi».
Un ottimo esordio di un autore che non avrebbe bisogno alcuno di dimostrare familiarità con le teorie della letteratura, citando Dostoevskij, Barthes, Borges e altri “mostri sacri” per legittimare la sua scrittura e la sua entrata nel panorama letterario contemporaneo: Cose vive vive e vivrà anche senza.
Lidia Tecchiati
Social Network