Il tempio di Fortuna
di Elodie Harper
Fazi, agosto 2024
Traduzione di Giulia Gresti
€ 19 (cartaceo)
Anche Drusilla, come Amara, e come Britanna, è una sopravvissuta alla propria vita. Una donna in grado di capire che essere gentili, in un mondo che non lo è affatto, non porta lontano. (p. 138)
Ed eccoci, dopo Le lupe di Pompei e La casa dalla porta dorata, al capitolo finale della trilogia di Elodie Harper sulle lupe di Pompei e la storia di Amara, ex prostituta di un lupanare della città vesuviana, ora riscattata in forma di liberta grazie a Plinio il Vecchio. Avevamo lasciato la nostra protagonista, alla fine del secondo volume La casa dalla porta dorata, in procinto di lasciare Pompei e raggiungere Roma: ad aspettarla c'è Demetrio, il suo nuovo patrono, grazie al quale Amara ha potuto liberarsi del suo ex amante Rufo e assaporare il vero lusso.
Roma è molto diversa da Pompei: tutto è sfarzo, pomposità, tradimenti, intrighi nell'ombra, eppure lei sa di essere molto fortunata nonostante abbia abbandonato a Pompei il suo amante Filone e la figlia Rufina.
Il tema centrale di questo terzo volume è proprio la volubilità della dea Fortuna, come ci suggerisce anche il titolo: basta un niente per vederla voltarsi oppure per sorridere alla sorte. Amara, dunque, vive la sua vita tra feste, celebrazioni e sontuosi eventi insieme al suo patrono, ma la minaccia del suo passato non riesce a farle godere il presente: pensa ancora a Felicio, il lenone del lupanare che tormenta i suoi ricordi, pensa a Didone, la sua amica perduta, pensa a quanto sia precaria la situazione di sua figlia, nata libera ma senza una posizione sociale. Quando Demetrio, a seguito di una serie di disastri politici, le chiede di sposarlo, Amara pensa di aver risolto tutti i problemi della sua vita: Demtetrio è un ex shiavo, ora liberto, e braccio destro del defunto imperatore; sposarlo significherebbe assicurarsi un futuro sereno e pieno di ricchezze, per lei e Rufina.
Ma Filone? L'uomo che ama? Ancora schiavo.
Felicio tuttavia non è l'unica minaccia che si presenta sul cammino di Amara: ci troviamo nel 79 d. C. e il Vesuvio è sul punto di esplodere, cancellando Pompei dalla faccia della terra. Per una combinazione, lei si trova proprio in città in quell'ottobre e, a causa delle scosse di terremoto che si susseguono, si avverte una costante paura, un senso di disagio diffuso. Nessuno però poteva immaginare la catastrofe che ne sarebbe seguita.
Vede Filone che stringe al petto la figlia, il viso una maschera di paura. Poi la luce inizia a offuscarsi, come se stesse scendendo il tramonto a una velocità innaturale. Amara alza gli occhi: sopra la montagna si leva una colonna nera, che sale perforando il cielo come una lancia scagliata dal regno del dio del fuoco, Vulcano. Dita nere si aprono dalla sommità per afferrare Pompei, allungandosi nell'azzurro. Poi il mondo diventa grigio, il sole si oscura e inizia a piovere; ma è una pioggia diversa da qualsiasi rovescio Amara abbia mai sperimentato. Si strofina le braccia, confusa. Le gocce sono calde e lasciano macchie fuligginose sulla pelle: è cenere. Oltre il ronzio che ha nella testa, Amara si rende conto che la gente sta gridando. (p. 211)
I precedenti due volumi ci avevano preparati all'evento: finalmente il Vesuvio erutta e l'autrice ci descrive l'orrore, la paura, la colonna di fumo, la pioggia di cenere e lapilli, il buio innaturale, il panico, la fuga della gente, la morte. Il passaggio da pomeriggio calmo all'eruzione avviene, a mio avviso, troppo frettolosamente e in modo inesatto (Filone esclama che il Vesuvio sta eruttando, ma a quel tempo le persone non sapevano che fosse un vulcano, veniva ritenuto un comunissimo monte, quindi Filone non poteva sapere dell'eruzione), ma i capitolo successivi - la fuga di Amara insieme a Filone e Rufina, la morte di Plinio, il disastro di Stabia e Sorrento, e il ritorno a Pompei, alle sue rovine fumanti - sono molto intensi.
Altre persone a bordo scoppiano in lacrime dinnanzi all'incontrovertibile realtà della situazione. Anche Amara vorrebbe piangere, ma il dolore la soffoca. Davanti a loro ci sono grossi cumuli di ceneri fumanti e lapilli, sempre più alti via via che si avvicinano. Qua e là, piccoli fuochi ardono su queste nuove, brutte colline informi che si estendono a perdita d'occhio. Amara aguzza la vista, smaniosa di distinguere qualche sagoma, qualche punto di riferimento semisepolto, qualsiasi cosa possa riconoscere. Ma il grigio, qui, non è perforato dal rosso delle tegole; nessun ultimo piano che spunta. Pompei non è in rovina come Stabia: è stata annientata. (p. 272)
Ancora una volta, Amara deve combattere per sopravvivere. Di grande aiuto sarà Filone, senza il quale, probabilmente si sarebbe arresa. Molti lutti la colpiranno: Plinio in primo luogo, che come ben sappiamo dalla storia, si trovava a Miseno a quel tempo, insieme alla sua flotta, e morì soffocato dalle esalazioni tossiche del vulcano (ce lo racconta in una lettera il nipote Plinio il Giovane). Ebbene, questa non sarà l'unica perdita che dovrà subire Amara. Sul finale, approfittando dello scompiglio e del caos causato da quella situazione straordinaria, Amara prenderà due decisioni fatali e definitive (anche qui, secondo me, frettolose) e chiuderà in conti col passato una volta per tutte.
Il pregio di questo volume, come i due precedenti, è l'estrema scorrevolezza della lettura: chi si era affezionato ad Amara e agli altri personaggi, divora letteralmente il libro. Così è stato per me, grazie a una storia che mi accompagna ormai dal 2022. Si tratta, a mio avviso, di un ottimo testo di intrattenimento, ben scritto, rapido, appassionante, insomma il classico romanzo che potrebbe piacere a tutti. Sono solo un po' delusa dalla rapidità con cui l'autrice ha trattato l'arrivo dell'eruzione e la chiusura finale, ma credo sia un buon epilogo per la trilogia.
Lo consiglio per superare il blocco del lettore: è uno di questi testi che si lasciano praticamente leggere da soli.
Deborah D'Addetta