Una cosa per la quale mi odierai
di Erica Mou
Fandango, 2024
pp. 204
€ 16,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)
Il romanzo si apre all’insegna di una strana simmetria: nove mesi sono il tempo che ci mette una madre a morire, e un figlio a venire al mondo; il tempo della gestazione e il tempo del lutto, che la narratrice, Erica, si concede di vivere all’unisono mentre, costretta a letto da una gravidanza difficile, riprende in mano a distanza di dieci anni il diario di malattia della donna che l’ha generata: «oggi ho deciso che non piango più e, per smettere, devo parlare con mia madre, ritrovare quella voce che so ma non ricordo, sentirmi più figlia che mai per potermi immaginare mamma, rubarle qualcosa» (p. 39).
Il memoir
è strutturato in trimestri, che
mettono in rilievo questo parallelismo: il primo trimestre, segnato dalle «alterazioni nel corpo della madre»; il
secondo, da «simbiosi e calci»;
infine il terzo, il più doloroso e carico di aspettative, quello della «preparazione al distacco».
Quando la madre le comunica del suo
cancro («Devo dirti una cosa per la
quale mi odierai»), nella giovane si crea una frattura: esistono un prima e un dopo rispetto a quel
momento, e i due territori sono irrimediabilmente separati. La rabbia e il
senso di ingiustizia vanno di pari passo con un dolore che non si riesce a
dire. La notizia arriva in un momento positivo della sua vita, di successo
professionale e grandi cambiamenti, e getta su tutto la sua ombra lunga:
La mia vita è bellissima. E io sono sempre triste. Sono triste di essere triste mentre so che la mia vita è bellissima, la vedo, è come la desideravo. (p. 86)
Erica inizia a chiedersi se ciò che sta facendo, la sua vita da cantautrice sempre in tour, sia davvero quello che vuole («prima la musica non mi faceva piangere, anzi, mi faceva smettere di farlo. Ora mi sbrana da dentro», p. 55). Nella ricostruzione di ciò che è stato, del lungo itinerario sconnesso compiuto da sua madre attraverso chemioterapie e operazioni, la narratrice mette tutto: la frustrazione, la paura, la superstizione che porta ad aggrapparsi a parole, a rituali, a piccole soluzioni scaramantiche che potrebbero cambiare lo stato delle cose (pur nella piena consapevolezza razionale che, in realtà, non lo faranno). A differenza di quel che accade in altri romanzi che affrontano il tema, qui la malattia non insegna. È il dopo, semmai, a farlo: è il passaggio di ruolo, il diventare della figlia madre a sua volta che rivela cose prima non comprese.
Ancora non lo so che il sacrificio non c’entra niente con la cura.
Ancora non lo so che mia madre invece lo sa.
Ancora non lo so che fare il bene per qualcuno passa dal fare il bene per sé. (pp. 119-120)
Ad agevolare questo percorso di
consapevolezza è il diario della madre, che con le sue annotazioni quasi
quotidiane scandisce la narrazione del presente, o viene inframezzato ai
ricordi del passato; un diario che attraversa un’estate di incertezza, un
autunno di lotta, e si interrompe in inverno, quando appare chiaro quale sarà
il decorso della malattia («il diario di
mia madre non finisce quando finisce la vita. Il diario di mia madre finisce
quando finisce la speranza», p. 159).
Erica allora cerca di trasmettere alla creatura
che porta in grembo la forza di sua madre, il senso di un coraggio profondo, quello necessario per venire e stare nel mondo.
Ne emerge il ritratto
di una donna straordinaria, che utilizza nomi buffi per disinnescare l’ansia
e non contagiare i figli con le proprie fobie; che fa elenchi e calcoli
complicatissimi a mente; che si veste di una parvenza di normalità per vivere
al meglio ogni giorno anche durante il tempo arduo della terapia; che ha molto
amato, e molto è stata riamata. I nove mesi della sua malattia sono legati al
percorso della gravidanza perché, al tempo, sono stati per la protagonista germe di una rinascita: «mia madre è morta in nove mesi e un’altra volta, in quel tempo, mi ha
dato alla luce. Quel giorno io sono nata un’altra volta” (p. 189).
Erica Mou, con una prosa asciutta, paratattica, valorizzata da alcuni guizzi d’immagine, dà vita a un romanzo-memoir piano, che non cerca compassione, ma vuole invece dissezionare le radici della propria famiglia. Ecco allora che la vita e la morte inestricabilmente si legano, entrano in un dialogo che non termina, ma che si rinnova nel tempo, anche nel presente della narratrice, che si prepara ad accogliere la nuova, Piccola Vita.
Carolina Pernigo
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