La seconda giornata si apre con un omaggio a Giuseppe Berto, di cui la casa editrice dal 2016 sta ripubblicando le opere, sempre accompagnate da prefazioni che ne presentano i contenuti, in un’ottica di rispetto, ma anche di attualizzazione. L’ultimo uscito è il racconto fantastico La fantarca. A conversare sul palco sono Antonia Berto, figlia dello scrittore, e Riccardo Pedicone.
Il titolo dell’incontro, “Solo leggendo mi sembra di vivere”, è una citazione da Il male oscuro, ma incarna bene anche il senso della condivisione di questi incontri. L’arte e la letteratura servono infatti a restituire il senso della vita, e Berto affonda con i suoi scritti in questa ricerca. Lui è colui che per primo ha sfondato l’omertà che circonda la depressione, ed è proprio da qui, dall’opera forse più celebre dello scrittore veneto, che si avvia lo scambio.
Antonia Berto racconta del rapporto del padre con il libro, una sorta di autobiografia, in cui l’uomo, più che lo scrittore, si è aperto con una sincerità e una generosità rare. Chiunque legga Il male oscuro oggi non potrebbe mai indovinare la data della prima edizione: il romanzo “è invecchiato benissimo”, commenta Samuela Serri, rappresentante della casa editrice, che lo considera quasi un’anticipazione dell’autofiction, nonché opera che fonda uno stile, poi lasciato in eredità agli scrittori successivi (si può quasi identificare, ipotizza, una “linea veneta che culmina con Works di Vitaliano Trevisan”). Antonia racconta, non senza ironia, di un tema scritto da bambina a imitazione del padre, senza segni di interpunzione, che le era costato una sonora ramanzina, ed esplora poi le implicazioni di essere figlia dello scrittore Berto. Il male oscuro è un pesante fardello di famiglia, ma l’opera che ne parla é, per la figlia, anche una forma di cura. A ogni rilettura la colpisce la bravura di Giuseppe, sempre in grado di spaziare tra le forme e i generi.
“Lo stile di uno scrittore è la sua patria”, commenta Pellicone, chiedendo ad Antonia di raccontare la ricerca di Berto, a partire dal suo viaggio in Calabria.
Capo Vaticano, tra i golfi di Gioia Tauro e Sant’Eufemia, è stata per lui una folgorazione. L’acquisto di quella terra ha comportato l’esperienza di una realtà quasi primitiva, ed è stato proprio lì che Berto ha completato la stesura prima del Male oscuro e, poco dopo, de La fantarca. Anche in questo racconto la vita nutre l’opera; anche se così può non sembrare, l’umorismo fortissimo scaturisce da un’osservazione attenta della natura umana. L’opera è una fantasmagoria avanzatissima, che precorre i tempi.
“Secondo me si è divertito molto scrivendolo”, commenta Antonia Berto. Il titolo originario era “Anche i terroni vanno in cielo”, ed era pensato per una trasmissione radiofonica. Si tratta di un libro estremamente moderno, che affronta una situazione meridionale ancora non risolta, proponendo una soluzione definitiva: inviare gli ultimi abitanti del meridione, 1347 calabresi, su Saturno, con una navicella chiamata Speranza n. 5... Il senso dello humour ha aiutato molto Berto, anche ad attraversare la sua malattia, e deriva dalla sua capacità di intuire le dinamiche profonde del reale, alcune anche in grado di anticipare il dibattito contemporaneo (si pensi alle istanze ecologiste di Oh, Serafina!). “Berto è sempre stato a favore di una gamma di grigi. Il problema è che hanno sempre voluto dargli una forma, quando era un uomo in ricerca, che conteneva moltitudini, per dirla con Walt Withman”, commenta Pellicone. “Mio padre era un uomo libero, che non voleva nessuna etichetta, e questo gli è costato abbastanza caro”, risponde Antonia, notando la poca attenzione della critica, a cui pure corrispondeva un grande successo di pubblico. Berto ha provato tutta la vita ad abbattere muri, osserva Pellicone, e questo è ciò che rende importante la riscoperta della sua opera: “Cosa mi rimane di Giuseppe Berto? Il rapporto viscerale con l’origine e col processo, l’essere sempre attento, l’imparare a guardare”.
Il pomeriggio inizia all’insegna del brivido. Due scrittrici di romanzi di tensione, Paola Barbato e Lisa Jewell, dialogano intorno al tema dell’inquietudine, che non sempre si annida nei luoghi oscuri, ma può affondare le sue radici anche all’interno della famiglia, il luogo per eccellenza della sicurezza e della protezione.
La famiglia è ancora qui è il seguito de La famiglia del piano di sopra, e rappresenta un’anomalia per l’autrice, che non ama scrivere secondi volumi per i suoi libri. La sensazione di scrivere un libro nuovo è incomparabile, spiega: si comincia e non si sa dove la storia porterà, è un mistero già in sé; quando scrivi un sequel invece certe cose le sai, devi riprendere e ridare vita a ingredienti già miscelati, e rimetterli in movimento. È come se il primo libro fosse fatto di un’argilla molto malleabile, nel secondo la materia si è indurita, quindi sei più limitato.
Per Paola Barbato, il sequel di cui parliamo può essere paragonato a un Minotauro, cioè una creatura ibrida. Questo carattere è incarnato soprattutto nella figura del protagonista, Henry. Jewell ne racconta la genesi: nel primo volume le voci predominanti erano femminili, aveva quindi deciso di dar voce a un punto di vista diverso, quello di un ragazzino. Quando era partita, però, non sapeva ancora dove Henry sarebbe andato a finire… appare presto chiaro infatti che lui abbia un lato oscuro, non sia un narratore affidabile. Il sequel le ha consentito di conoscerlo meglio, di vedere come sarebbe evoluto il suo carattere, un aspetto che ha coinvolto molto anche il pubblico. Parte della tensione del romanzo risiede proprio nel non sapere cosa Henry farà nel momento in cui si troverà davvero di fronte all’oggetto della sua ossessione.
Nel romanzo, secondo Barbato, Henry è un’“arma di distrazione di massa”, che tiene occupato il lettore mentre intorno a lui succedono altre cose, si sviluppano altre linee narrative, su piani temporali leggermente sfasati e pensati appositamente per giocare col lettore, fargli perdere di vista il quadro generale. Organizzare la sequenza è una strategia dello scrittore per rendere avvincente la vicenda, controbatte Jewell. Ci sono quattro storie che si articolano nel volume: quella di Henry, che si mette alla ricerca di Phinn; quella di Lucy, che ritrova finalmente una sua stabilità, ma è preoccupata per il fratello e per ciò che potrebbe fare; la pista dell’indagine della polizia (la prima mai scritta da Jewell, che non ama i detective, perché per metterli in campo bisogna conoscerne le procedure, mentre per lei le storie ruotano soprattutto intorno i personaggi). Il quarto filone, infine, è quello che coinvolge Rachel, e sembra quasi una vicenda separata dalle altre. Qui si annida una storia oscura, che ruota intorno a un matrimonio eccessivamente frettoloso, e disfunzionale.
“Che ruolo ha in queste dinamiche la famiglia? La famiglia è davvero questo gran fertilizzante di tutto quanto è tremendo?”, chiede Barbato, sottolineando come all’interno dei romanzi ci sia un unico personaggio davvero positivo, nell’ambito famigliare, ovvero il padre di Rachel. Nei libri che scrive, spiega Jewell, ci sono il male, l’oscurità… per questo serve anche qualche personaggio luminoso, positivo, che dia un po’ di respiro. Questo serve tanto alla scrittrice quanto ai lettori. Il padre di Rachel rappresenta il brav’uomo di cui c’è bisogno. Quando si elabora un romanzo del genere, si pensa che il lettore debba trovarsi in una situazione scomoda, ma debba poi avere anche un contrappunto positivo, una traccia di innocenza.
Ne La famiglia è ancora qui si affronta il tema del gaslighting. L’autrice lo descrive ricollocandolo all’interno di un più ampio sistema di dominazione psicologica su un’altra persona, un comportamento tossico e talvolta molto brutale, che si può trovare in ambiti di relazioni sentimentali, ma non solo (nel volume precedente era applicato al controllo operato da una setta). “È un tema ritornante innanzitutto perché queste dinamiche mi affascinano, ma anche perché mi hanno toccato in prima persona”, spiega. “Rachel sono io. Quando avevo ventun anni ho incontrato un uomo di cui ero follemente innamorata e per cinque anni mi sono trovata in una sorta di prigione. Lui mi ha allontanato dalla mia città, dalla mia famiglia, dalle persone a cui volevo bene. Io mi reputo una persona forte, eppure mi è accaduto, e ancora oggi non riesco a capire come sia successo, come si possa permettere a un altro di prendere il controllo assoluto sulla propria vita. Forse il mio è un continuare a scavare per cercare di capire, attraverso i miei personaggi, cos’è successo a me”.
“Non Tutti i personaggi del libro perdono il controllo sulla loro vita… ma perdere il controllo fa bene?”, chiede infine Paola Barbato. “La vita è tutta questione di equilibrio, io di mio non ritengo di essere una maniaca del controllo, anche se in alcuni ambiti è necessario averlo. Il trucco è riuscire ad arrivare a una misura, e non è così semplice, bisogna comprendere quanto bisogna tenere, quanto lasciare”, risponde Jewell. “Ci vuole una vita intera per riuscire a capirlo”.
A cura di Carolina Pernigo