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"Il canto dell'essere e dell'apparire" di Cees Nooteboom: cosa significa scrivere e fin dove uno scrittore può considerarsi creatore dei propri personaggi (e di sé stesso)?

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Il canto dell’essere e dell’apparire
di Cees Nooteboom
Iperborea, 2024
 
Traduzione di Fulvio Ferrari
 
pp. 128
€ 16,00 (cartaceo)
 

Paragonato dalla critica a Calvino, Borges e Nabokov, Cees Nooteboom è uno scrittore olandese tra i più affermati del panorama letterario contemporaneo. Il canto dell’essere e dell’apparire, pubblicato per la prima volta nel 1981 e dieci anni più tardi in Italia, con la traduzione e la postfazione di Fulvio Ferrari, è stata una meravigliosa scoperta.

Per chi è affine alla dimensione metaletteraria, e in particolare alla riflessione sulla scrittura come processo di creazione, Il canto dell’essere e dell’apparire dà un’incantevole soddisfazione pur nella brevità del suo testo, facendosi leggere con grande passione e scioltezza. Un testo che si profila lungo due piani narrativi: da un lato, la “trama” di eventi – se così può essere definita, dato che non ci è dato sapere granché – che coinvolge i personaggi dello “scrittore” e dell’“altro scrittore”, i quali più che soggetti di una narrazione ci risultano delle pedine utili al discorso metaletterario, specialmente su cosa sia lo scrivere e su quale sia il senso di dare vita a una realtà immaginaria, perdendosi in congetture del tutto fittizie e finendo per mettere in discussione sé stessi e il proprio reale.
Tu credi che il mondo esista solo se tu scrivi. [Dice l’altro scrittore allo scrittore, NdR]. Tu che non vuoi scrivere – presumo infatti che se uno non scrive per tutto questo tempo in realtà non voglia scrivere, o non ne abbia il coraggio – hai più fede nella scrittura di quanta ne abbia io. Se infatti il mondo esiste solo nel momento in cui scrivi, allora credi che anche tu esisti solo nel momento in cui scrivi. […] Tu non hai dubbi sulla realtà dei tuoi personaggi, li hai sulla tua realtà. Se puoi inventarti qualcuno, allora qualcuno può essersi inventato te (pp. 72-73).
Dall’altro lato, abbiamo il filone del romanzo nel romanzo, ovvero il testo che lo “scrittore” tenta con fatica di scrivere, ostacolato e in parte alimentato dalle ponderazioni esistenziali sullo scrivere. Un testo che ha per protagonisti il colonnello Georgiev perseguitato dai drammatici ricordi della guerra e il cinico e perverso dottor Fičev, bulgaro come il primo, insieme all’enigmatica moglie Laura; tre personaggi che rievocano un’atmosfera decadente e nostalgica che si lega perfettamente al primo piano narrativo, facendo da specchio riflettente dell’umore dello scrittore che li narra, del suo sentirsi inglobato e assorbito dall’irrealtà del mondo che immagina. Cominciando a sentire i personaggi come creazioni al di fuori del sé, conoscendo i loro incubi e provando le loro sensazioni, lo scrittore crederà di essere diventato lui stesso un personaggio irreale.

Come giustamente sottolinea Ferrari nella postfazione, ci appaiono ben più veri i personaggi bulgari fittizi piuttosto che i due scrittori, i quali invece nel testo costituiscono il piano del reale. L’autore Nooteboom, così facendo, crea un ironico scambio di realtà, «un gioco di specchi» (p.124), lasciando che la storia dei due scrittori assuma quasi un ruolo di cornice riflessiva e che sia il romanzo dentro al romanzo a risultare molto più concreto e reale ai nostri occhi.
Il risultato è sorprendente: nel testo si genera un bizzarro e ottundente sovrapporsi dei piani di narrazione. A una lettura svagata – che poi sarebbe a dire coinvolta, perché è quando si è massimamente coinvolti che ci si perde – viene da credere all’improvviso che sia il colonnello a reggere le redini della narrazione, ad esserne il fulcro, quando il punto di vista è invece dello scrittore, figura del “reale”, un reale che però è sempre e comunque frutto dell’immaginazione del nostro autore.

Quella di Nooteboom è una scrittura che prende in contropiede, un discorrere metaletterario, molto vicino al filosofeggiare, che tuttavia non appesantisce, ma, al contrario, riesce a rendere la lettura del Canto dell'essere e dell'apparire ancora più fluida, godibile e coinvolgente. Una lettura che muove il lettore al desiderio di conoscere l’autore più profondamente e di leggerne al più presto anche le altre opere.

Citando nuovamente Ferrari, si tratta di «temi tanto sfuggenti e fondamentali, appunto, che facilmente potrebbero tramutarsi in letteratura pedante o banale. Nooteboom ne trae, invece, costruzioni di stupefacente eleganza e leggerezza» (p. 127). Lo iato tra l’essere e l’apparire impregna entrambi i piani narrativi, invitando il lettore a inevitabili riflessioni su una domanda dopotutto breve ed essenziale: cosa è scrivere? E sebbene ci sembri, almeno a un primo momento, azzeccata la risposta che ne dà l’altro scrittore, il romanziere di successo: «una semplice attività artigianale, quella, banalmente, di raccontare una storia con un inizio e una fine!» (p. 42); in verità, non sembra bastarci.

Federica Cracchiolo