di Ken Greenhall
Adelphi, settembre 2024
A settembre sono usciti due libri, per due editori diversi, che dialogano idealmente tra loro e, almeno nelle intenzioni, anche con un’autrice del passato, amatissima. Storie assai diverse per forma, tematiche e spunti, ma che mi paiono anche l’occasione ideale per riflettere su alcune cose legate alla narrazione, al perturbante e a certe scelte editoriali e di comunicazione. Mi sto riferendo a Elizabeth, di Ken Greenhall, pubblicato da Adelphi nella traduzione sempre impeccabile di Monica Pareschi, e La villa sulla collina, di Elizabeth Hand, tradotto da Raffaella Maria Arnaldi Scansini per Astoria. Ad accomunare i due testi è, innanzitutto, il richiamo al perturbante e alle atmosfere del gotico, riprova di tendenze mai esaurite e che, anzi, paiono aver trovato negli ultimi anni nuova spinta, alimentate dal desiderio di indagare le zone oscure dell’animo umano e della società. Elizabeth si muove appieno nel contesto del perturbante, sostenuto da una scrittura ipnotica, elegante e tesa, a cui la voce di Pareschi ancora una volta ha saputo rendere giustizia entrando in piena sintonia con quella dell’autore. La villa sulla collina richiama invece più in particolare le atmosfere gotiche, genere di cui riprende certe tendenze e modalità narrative, ancorandolo alla contemporaneità con una scrittura meno forbita rispetto al romanzo di Greenhall, intrecciata a una narrazione dalle intenzioni diverse.
C’è poi un altro elemento in comune ai due romanzi, ed è il legame con Shirley Jackson, autrice amatissima che negli ultimi anni ha avuto una grande riscoperta da parte del pubblico e della critica, tanto statunitense quanto italiana. In generale è piuttosto stancante questo continuo scomodare Jackson anche per opere che nulla o poco hanno a che fare con la sua scrittura e, ancora, mi pare superficiale tirare fuori il suo nome solo per parlare di genere gotico: se proprio volessimo dare un’etichetta alla sua scrittura, perturbante mi pare quella più appropriata, anche se basta leggere almeno una delle raccolte di racconti di Jackson ripubblicate da Adelphi per rendersi conto di quanto le etichette le stiano strette, per la molteplicità dei suoi testi che vanno dal perturbante, appunto, allo sketch, molto spesso attraversati da un’ironia innegabile. Soffermandoci su romanzi e racconti perturbanti di Jackson, colpisce lo scavo dei personaggi e il desiderio di raccontare le ambiguità e le zone più oscure dell’animo umano. Ancora a proposito di Jackson e di certi equivoci nella sua ricezione: non parlerei tanto di soprannaturale – e infatti certi accostamenti ad altri autori mi paiono poco attinenti – quanto di narrazioni in cui l’oscurità e il male sono nel cuore degli uomini e delle donne e poco o niente hanno a che fare con l’irrazionale.
Il legame con Jackson è particolarmente saldo nel romanzo La villa sulla collina, ma solo per via dell’ambientazione: Hand, infatti, sceglie come luogo della narrazione Hill House, ossia la celebre villa da incubo del romanzo omonimo di Jackson; è la stessa villa, dall’oscuro passato, che questa volta diventa il palcoscenico – è proprio il caso di usare questo termine – per una storia ambientata ai giorni nostri. I riferimenti al testo di Jackson sono numerosi, alcuni più evidenti di altri, tra cui quindi la villa stessa e alcune presenze che turbano la tranquillità dei protagonisti.
La maggior parte delle case dorme, e quasi tutte sognano […] Hill House non dorme né sogna. Avvolta nel manto dei suoi prati incolti e delle sue distese boschive, nelle lunghe ombre delle montagne e delle querce secolari, Hill House osserva. Hill House aspetta. (prologo, p. 9)
Una villa isolata, dunque, e decadente, ai confini di una cittadina in crisi e circondata dal mistero: lo scenario ideale dove un gruppo teatrale decide di ritirarsi a provare lo spettacolo sul quale stanno lavorando e che, guarda caso, è ispirato alla caccia alle streghe. La compagnia è composta da Holly, la regista, la compagna Nisa e interprete di struggenti, macabre, ballate, Stevie il tecnico del suono e Amanda, attrice che pare aver sfiorato ormai da tempo – e perduto – il suo momento di gloria. La convivenza forzata per le due settimane in cui hanno deciso di affittare la villa e, soprattutto, la dimora, metteranno sempre più profondamente in crisi gli equilibri già precari del loro rapporto e delle loro vite.
Hill House fa leva sulle aspettative delle persone. Di solito pensano che li renderà felici. (p. 71)
Similmente – almeno nelle intenzioni – a quanto interessava a Jackson, anche per Hand il sovrannaturale è il pretesto per indagare le pieghe più oscure dell’animo umano e più tempo trascorrono dentro i confini della villa più vengono a galla segreti, colpe e inquietudini dei protagonisti. Per rendere questo aspetto più coinvolgente, l’autrice sceglie inoltre di servirsi di punti di vista diversi, concentrandosi sull’uno o sull’altro dei personaggi e far partecipare così più da vicino il lettore, giocando di conseguenza anche con l’ambiguità e lo sguardo parziale che ne deriva. Ambiguità e inaffidabilità che sono pienamente proprie della voce narrante invece del romanzo di Greenhall: la protagonista, Elizabeth, è un personaggio estremamente affascinante, che ammalia il lettore fin dalle prime, crudeli battute.
Sono venuta ad abitare dalla nonna più o meno un anno fa, dopo aver ucciso i miei genitori. Non vorrei sembrarvi senza cuore. Lasciate che vi spieghi. (p. 10)
È questo il mood della narrazione, costruita quasi come fosse un lungo monologo rivolto al lettore. O meglio, alle lettrici, cui infatti Elizabeth si rivolgerà direttamente in ultima battuta. L’eleganza brutale della prosa avvinghia a una storia in cui il legame con Jackson non mi pare così rilevante, se non all’inizio per una vaga somiglianza tra la protagonista e la Merricat di Abbiamo sempre vissuto nel castello: entrambe le protagoniste sono due giovani donne – Elizabeth appena quattordicenne – dall’intelletto acuto, misteriose e attratte dall’oscurità, ambigue seppur in modi diversi – l’ambiguità di Elizabeth si lega anche a una sessualità conturbante, quella di Merricat a una condizione di perenne infanzia, seppur priva di innocenza – , legate alla casa in cui abitano in modo quasi morboso. Tuttavia se, come si diceva, l’oscurità nel mondo di Shirley Jackson poco ha a che fare con il sovrannaturale, nel romanzo di Greenhall il confine tra reale e immateriale si fa più labile. Elizabeth è la discendente di una genìa di streghe e accoglie il potere che scopre di avere proteggendolo da chi vorrebbe impedirle di usarlo, da chi cerca di contenerla, farle rinnegare la propria appartenenza. A seguito della morte dei genitori si trasferisce nella grande casa della nonna, dove vivono anche lo zio James – con il quale ha da tempo una relazione – , la moglie e il figlio, tutti quanti mantenuti dalla matriarca. Nell’edificio di fianco, separati solo da un muro ma inaccessibili li uni per l’altro, risiede il nonno, che molti anni prima ha lasciato la casa e il patrimonio senza mai più rivolgere la parola alla moglie, custodendo però il segreto di quella rottura insanabile. L’arrivo di Elizabeth sconvolge presto gli equilibri domestici e siamo ammaliati davanti alla crudele sincerità con cui la ragazza scandaglia il cuore di ognuno di loro, similmente a quanto faceva con i suoi genitori, svelandoci meschinità, segreti, desideri inconfessabili.
Il giorno dopo a colazione non facevamo che sorriderci a vicenda parlando del più e del meno. eravamo una famiglia come tante. Ci sembrava opportuno nascondere i nostri veri sentimenti. (p. 39)
Nessuno è davvero innocente in questa storia, certamente non Elizabeth, ma neanche gli altri abitanti della casa possono dirsi tali. Se la questione sovrannaturale ha a mio parere preso un po’ troppo il sopravvento in un romanzo che facendo maggiormente leva sull’ambiguità sarebbe risultato molto più interessante, la storia intrecciata da Greenhall non manca di spunti intriganti, messi purtroppo in ombra da certe debolezze della trama e dell’idea di fondo. L’interesse per la profondità dei personaggi e l’indagine sul malvagio quello sì è un chiaro richiamo a Shirley Jackson:
«Facevi spesso delle cose che non si dovrebbero fare». «Vuol dire che ero una bambina cattiva?» «Voglio dire che non avevi idea cosa significasse essere o non essere cattivi» (p. 73)
Interessante in quest’ottica l’intreccio tra realtà e immaginazione, che nel finale apre a nuove interpretazioni della storia, non riuscendo però a compiersi pienamente. Tolto l’elemento sovrannaturale è una storia che potrebbe perfino essere letta in chiave femminista, con la protagonista che sceglie di usare il potere di cui dispone e non metterlo a tacere, rifiuta le leggi e le convenzioni degli uomini, si muove libera secondo il proprio codice morale. Quello di Greenhall, appare evidente, è un romanzo interessante, dispiace però per alcune debolezze che ne hanno rovinato l’effetto generale, tra cui soprattutto la prevedibilità di certe svolte e passaggi. A lasciarmi un po’ perplessa anche l’uso del sovrannaturale in una storia che, si diceva, si sarebbe potuta benissimo basare su quell’ambiguità che poi torna nel finale ma che così risulta straniante. Ecco, il finale, e intendo proprio le ultimissime battute che, ovviamente, non rivelerò: in quella vaghezza c’è molto di Shirley Jackson e il ritorno alla sopracitata ambiguità.
Che siano omaggi o influenze più o meno evidenti e plausibili, il mito di Shirley Jackson non smette di ammaliare lettori e scrittori: l’incubo, l’ambiguità, il gotico, si fanno ancora specchio dei nostri tempi e delle nostre paure.
Debora Lambruschini
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