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Il mondo è «un luogo dove ogni azione rappresentava una possibilità per migliorare il mondo»: il nuovo romanzo di James McBride e il senso di comunità

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L'emporio del cielo e della terra
di James McBride
Fazi, settembre 2024

Traduzione di Silvia Castoldi

pp. 420
€ 19 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Si aggira uno spettro, tra studiosi e appassionati di letteratura statunitense, che si chiama Il Grande Romanzo Americano: fiumi di inchiostro e post sui social per decretare con argomentazioni più o meno strutturate che cosa sia questo fantasma, quale forma sia autorizzato a prendere. L’emporio del cielo e della terra, il nuovo romanzo dello scrittore afroamericano James McBride uscito ieri per Fazi editore nella splendida traduzione di Silvia Castoldi, non penso possa “concorrere” al titolo, ma di certo è uno dei testi degli ultimi anni che meglio racconta l’America, le sue contraddizioni e complessità, il suo passato e il suo presente e, soprattutto, la pluralità delle voci e delle comunità che la compongono. Dico spesso che l’idea dell’America – reale e letteraria – bianca non esiste e mai è esistita oltre lo stereotipo di certi sguardi o narrazioni che per lungo tempo l’hanno raccontata invece proprio in quei termini: è, invece, un insieme variegato di luoghi, di voci, etnie, tradizioni, storie che meritano di essere rappresentate. Il romanzo di McBride dà anima e corpo a gruppi etnici diversi, a un’America di conflitti e divisioni ma anche di comunità, empatia, solidarietà. Perché se il male del nostro tempo è proprio l’indifferenza, la mancanza di solidarietà nei confronti dell’altro, L’emporio del cielo e della terra racconta invece come siano la «solidarietà e l’azione» a salvarci, anche nei momenti più oscuri.

È bene sottolineare subito però che, a differenza di quanto potrebbe apparire da una prima occhiata a copertina e letture sommarie, quello di McBride non è affatto un romanzo buonista, una favoletta, una storia semplice: al contrario – e qui sta il suo valore – è un romanzo complesso, tanto per struttura narrativa che per tematiche trattate, strabordante a volte, in cui la bellezza si mescola all’oscurità. L’autore non fa sconti, non strizza l’occhio ai lettori da compiacere. E di questo non possiamo che essergli grati. Non fatevi trarre in inganno perciò dalla – pur bellissima – copertina o da qualche post letto qui e là: L’emporio del cielo e della terra è una storia piuttosto dura, ma anche molto più interessante, stratificata, densa di spunti di quanto potrebbe apparire. Una storia che parte nel 1973 con la scoperta di uno scheletro in un pozzo per poi tornare indietro agli anni Trenta, dove si svolge l’intera vicenda, nel quartiere multietnico di Chicken Hill, cittadina immaginaria di Pottstown, Pennsylvania. È qui che si trova appunto l’emporio del cielo e della terra di Chona e di suo marito Moshe, che hanno fatto fortuna grazie al teatro di cui lui è proprietario ma che, per volere della donna, risiedono ancora lì, nel vecchio appartamento sopra la bottega, in quel quartiere abitato per lo più da neri e immigrati.

L’emporio – o meglio, Chona – è il cuore del quartiere e della storia: rappresenta un punto fermo per la comunità, un luogo dove trovare riparo, solidarietà, cura. Ed è qui, perciò, a Chona e Moshe, che il tuttofare del teatro Nate e la moglie Eddie chiederanno aiuto per nascondere il nipote Dodo: rimasto sordo in un incidente domestico, il ragazzino è ricercato dagli assistenti sociali che a seguito della recente morte della madre vogliono portarlo in un ospedale psichiatrico dove, al tempo, si trovavano anche persone disabili. Se Moshe in un primo momento pare restio ad accogliere il dodicenne per il timore di ciò che potrebbe comportare nasconderlo alle istituzioni, Chona non esita nemmeno un secondo, per istintiva solidarietà ma anche per poter in qualche modo soddisfare un istinto materno che con suo dispiacere non è bastato a farla diventare madre. Da qui si avvia effettivamente la storia, dall’accoglienza di Dodo e le terribili conseguenze che avrà la scoperta del “fuggiasco”. Ma quello che fa McBride è dare voce a una comunità intera, in un romanzo corale in cui non è così immediato entrare e con qualche brano che personalmente avrei sfoltito senza comunque venire meno alla pluralità di voci, storie, dettagli che confluiscono in un disegno più ampio e compiuto; proprio questa pluralità è la forza della storia, fatta di tante altre storie, tutte in qualche modo necessarie. È rischioso tessere una trama di questo tipo, ma McBride è un narratore esperto, non perde le fila, richiede ai propri lettori quello sforzo che tanta narrativa contemporanea pare invece aver deciso non siamo in grado di affrontare. Ha il gusto dei romanzi-mondo di qualche anno fa, delle narrazioni di Jonathan Safran Foer, ma con uno sguardo tutto peculiare.

La storia di McBride è perfettamente collocata in un’epoca storica della quale delinea ogni dettaglio, dall’eco della realtà alla musica jazz, il mondo dei teatri e i suoi protagonisti, la comunità ebraica, la questione razziale, ma che non si limita a restare radicata in quel contesto: sentimenti e tematiche che la attraversano dialogano anche con il nostro presente, amplificando la portata del romanzo. Molteplici, quindi, le chiavi di lettura con cui affrontarla. C’è, in primo luogo, il discorso sulla comunità, centro nevralgico di questa storia: quella di Chicken Hill è una comunità di ebrei, neri e immigrati dall’Europa, di gruppi etnici con tradizioni e problemi specifici ma anche capace di stringersi l’uno all’altro in caso di necessità, affrontare vecchi rancori e distanze di fronte al pericolo. Perché l’azione è ciò che conta davvero, quello in cui Chona crede da sempre:

Chona non era mai stata il tipo che rispettava le regole della società americana. La sua esperienza del mondo non era come quella degli altri. Per lei il mondo non era una vetrinetta delle porcellane, dove guardare e non toccare. Invece lo considerava un luogo dove ogni azione dell’esistenza rappresentava una possibilità per il Tiqqun ‘ olam, per migliorare il mondo. (p. 302)

La società americana degli anni Trenta, tuttavia, ha regole e uno stato di cose fatto su misura per i bianchi ed è pericoloso mettersi contro chi pensa di detenere il potere nel nome di un’antica discendenza, di una supremazia della razza, del riparo di una certa professione o credo religioso. Nonostante la leggera disabilità e, in seguito, una malattia misteriosa che appare sempre più grave, Chona è una forza della natura, caparbia, coraggiosa e forte dei suoi principi, empatica. Amatissima dal marito Moshe, un uomo buono seppur meno coraggioso della moglie, è anche il motivo del precipitare di ogni cosa. Una comunità è tale però quando il coraggio e l’empatia non si limitano a uno solo dei suoi membri, a una sola famiglia, ma quando ognuno fa la sua parte, di sua iniziativa o incoraggiato da chi gli è accanto, anche nel pericolo più estremo dell’odio istituzionalizzato. Quando Chona non può agire, sono quelle persone che abitano il quartiere e di cui in vari modi si è sempre presa cura a farlo adesso per lei, affrontando pericoli e superando rancori personali e divisioni etniche. È qui, forse, che si è creato il fraintendimento che McBride avesse scritto una storiella di buoni sentimenti, consolatoria, scorrevole: non è così, L’emporio del cielo e della terra è molto più complesso e stratificato, si diceva, la lingua è intrisa di voci diverse, termini yiddish, culture, temi, e una narrazione che affonda con la stessa lucida capacità nei sentimenti benevoli quanto nell’oscurità. E dove non ci sono sempre nette distinzioni tra ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, tra buoni e cattivi. Anche i “buoni” possono celare un passato da cui non sono riusciti davvero ad affrancarsi del tutto:

Addie si accigliò. Ecco come stavano le cose. Un uomo con una storia che non vuole raccontare non vuole nemmeno entrare in un posto chiuso a chiave. Neanche per una visita. Non se in passato è stato anche lui in un posto chiuso a chiave. (p. 222)

Il personaggio di Nate ben rappresenta la complessità e stratificazione di questa storia, per le molteplici strade che apre davanti al lettore: è parte della comunità nera di Chicken Hill, è un gran lavoratore (aiuta Moshe in teatro), silenzioso e riservato; è un personaggio tratteggiato con cura, fatto di carne e sangue, di incertezze, dubbi, complessità. Consapevole del rischio derivante dall’accogliere il nipote orfano, è anche attraverso di lui – ma forse ancora di più mediante Bernice, l’amica d’infanzia di Chona – che McBride riesce efficacemente a raccontare il complesso rapporto fra tradizioni ed etnie diverse, la convivenza in un quartiere e un mondo che aspetta solo facciano un passo falso per punirli severamente. Nate parla lo stretto necessario e tra lui e Moshe nonostante tutto resta sempre una certa distanza, pur con il rispetto e, perché no, anche l’affetto che li lega. Un nero, un ebreo esule dall’Europa arrivato senza niente insieme al cugino e che pezzo dopo pezzo ha costruito una vita, una casa, una certa solidità. C’è un’oscurità in Nate che non è solo nel suo passato ma con la quale convive da sempre, che solo Addie, talvolta, riesce a illuminare:

Gli afferrò con fermezza una mano e se la premette contro il petto, sopra il cuore. Nate avvertì un’ondata di quel vecchio sentimento, di quello splendore, della luce che Addie accendeva in lui, e l’incudine che gravava sul suo, di cuore, si sollevò. (p. 223)

Mi piace molto quest’immagine della luce che Addie accende in lui, quell’uomo di cui non potrà mai conoscere del tutto gli oscuri segreti, ma che è pronto nel momento della necessità a farsi avanti, ad agire. L’azione, quella di cui parlava anche Baldwin – quanto ci manca James Baldwin? Quanto ne abbiamo ancora bisogno? Qui un omaggio in occasione del centenario della nascita – perché i buoni sentimenti e le parole non bastano, bisogna agire. Con quello che abbiamo.

Anche un bambino, nel luogo più oscuro in cui si è trovato, intrappolato in un corpo che non risponde, può aiutarne un altro a sopravvivere. Sono pagine durissime quelle in cui la storia si sposta tra le sale dell’ospedale psichiatrico, la ragione per cui non mi sentirei mai di consigliare a cuor leggero questo romanzo che non fa sconti, mettendoci di fronte a brutalità, violenza, abusi. Un testo che, pur con le dovute distinzioni, dialoga anche con I ragazzi della Nickel di quel genio di Colson Whitehead, due volte premio Pulitzer, e che inevitabilmente si confronta con la questione razziale, in un’ottica storica, certo, data l’ambientazione, ma che come si diceva trova interpretazioni anche nella realtà contemporanea:

L’uomo bianco li disprezzava in Pennsylvania proprio come nel Low Country. La differenza era che al Sud l’uomo bianco esprimeva il proprio odio in termini chiari, nitidi e concisi, mentre nel nuovo paese lo nascondeva dietro racconti di saggezza e spavalderia, dietro sorrisi falsamente sinceri e storie su Gesù Cristo, e altre sciocchezze che lanciava in giro come coriandoli durante la sfilata di Pottstown. (p. 384)

Proprio in questi giorni è uscito un romanzo ambizioso e bellissimo, James, di Percival Everett, di cui scriverò presto su queste pagine, e lì la questione razziale è il fulcro della narrazione, con la storia di Jim, lo schiavo fuggiasco de Le avventure di Huckleberry Finn, che si riappropria del suo io diventando James; nel romanzo di McBride discriminazione e razza sono una delle chiavi di lettura e affrontate tanto per quel che riguarda i neri che gli immigrati, a partire dagli ebrei. La questione ebraica, la diaspora, l’eco terribile di quanto di lì a poco accadrà nel vecchio continente, l’umiliazione e il pregiudizio, attraversano la storia e, ancora una volta, accendono un segnale su una realtà odierna che si sta facendo preoccupante. Tra i tanti passaggi e riflessioni, sono le parole di Moshe a dare senso in modo particolarmente efficace a che cosa significhi essere immigrato, ebreo, in una terra che non ti accetta davvero:

Erano una nazione perduta, sparsa per la campagna americana, disorientata; l’istruzione ricevuta nella yeshivah era ormai inutile, la loro storia orgogliosa ignorata da tutti, mentre il clangore metallico dell’industria americana ribolliva tutto intorno, e il loro orgoglioso passato da orologiai e sarti, da studiosi e storici, da musicisti e artisti era scomparso, sprecato. Agli americani interessava il denaro. Il potere. Il governo. Gli ebrei non possedevano nessuna di queste cose. (p. 75)

C’è ancora molto altro racchiuso in questo romanzo, non privo pure di qualche debolezza, ma di certo tra le letture più interessanti e ricche del periodo: il discorso sul cambiamento, sulla malattia, la disabilità, sull’amicizia. C’è molto, lo lascio al lettore, che sicuramente saprà trovare la propria chiave di lettura.

Debora Lambruschini