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«Un’epoca non ne replica un’altra», ma certi muri e recinzioni hanno echi lontani. "Il giardino contro il tempo", di Oliva Laing

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Il giardino contro il tempo
di Olivia Laing
Il Saggiatore, maggio 2024

Traduzione di Katia Bagnoli 

pp. 368
€ 26 (cartaceo)
€ 12,99 (ebook)

Leggere Oliva Laing è intraprendere un viaggio: tra forme narrative diverse – dal saggio al memoir – nei luoghi fisici della narrazione e in quelli più letterari, tra passato e presente. Da un paio di anni Il Saggiatore sta traducendo in italiano l’opera della scrittrice e critica letteraria inglese: testi ibridi appunto, che sapientemente intrecciano le osservazioni critiche specifiche della materia trattata nel singolo libro a considerazioni di natura più intima, riuscendo a calibrare i due aspetti. Una forma non nuova di questo tempo ma che negli ultimi anni pare essersi accesa di particolare interesse, tanto da parte degli autori che del pubblico, non sempre con risultati rilevanti. I testi di Laing si collocano nel solco dei migliori ibridismi ed è la capacità dell’autrice di andare ben oltre il mero dato autobiografico a rendere la lettura particolarmente interessante, viva, pulsante, dalle chiavi di lettura molteplici. Testi di questa natura, inoltre, creano una connessione molto stretta con il lettore in un dialogo profondo per le numerose riflessioni che contengono. Il giardino contro il tempo, il titolo più recente di Laing pubblicato pochi mesi fa da Il Saggiatore nella traduzione di Katia Bagnoli, è anche stavolta un’opera sorprendente che richiede al lettore una certa concentrazione e dedizione. È, in estrema sintesi, una profonda e articolata riflessione sui giardini e sui molteplici significati che assumono, viaggio tra letteratura, botanica, storia ma anche riflessione acuta sulle implicazioni politiche e sociali, sul cambiamento climatico, sulla contemporaneità.

Laing parte dal dato personale, da un avvenimento importante della propria vita: nel 2020, poco prima dello scoppio dalla pandemia e del periodo di lockdown, insieme al marito acquista una casa con giardino nel Suffolk che in seguito scopre essere appartenuta all’architetto paesaggista Mark Rumary e iniziano a restaurare la proprietà; quel giardino selvaggio, lasciato all’incuria del tempo, rappresenta per Laing un desiderio di lungo corso, cui dedicarsi con passione, tra lavori, ricerche, studio appassionato. Immersa in quello spazio verde, mentre il mondo si chiude a seguito della pandemia, è inevitabile la riflessione su come lo spazio a disposizione abbia inciso sulla vita delle persone in quel particolare momento più che mai:

[…] Il lockdown rese dolorosamente chiaro che il giardino, presunto rifugio dal mondo, era anche un problema ineluttabilmente politico. Quella meravigliosa primavera mise in luce l’enorme disparità tra le persone che si trastullavano con zappetta e rastrello o digitavano al computer dalla sedia a sdraio e quelle intrappolate dentro appartamenti di palazzoni o in monolocali ammuffiti. (p. 26)

Si è messa in evidenza in quei mesi la disparità tra le persone rispetto ai luoghi che abitiamo e come questi incidano profondamente sulla qualità della vita in modi che prima di allora forse non avevamo mai davvero considerato in tutte le loro possibili implicazioni. Riflessioni piuttosto semplici, è chiaro, ma le implicazioni di quella consapevolezza hanno un impatto concreto nella realtà. A partire dal proprio giardino da restaurare, Laing apre quindi a un discorso più ampio che si intreccia in primo luogo alla letteratura, alla storia, alla religione, alla botanica: le pagine di Paradiso perduto di Milton, i versi di John Clare, lampi fugaci di Gita al faro di Virginia Woolf e numerosi altri autori e opere, prendono vita tra le pagine e da quel giardino nel Suffolk conducono il lettore in luoghi altri, reali e immaginari. Ciò che personalmente apprezzo maggiormente dell’opera di Laing è quel peculiare sguardo con il quale la critica letteraria più puntuale e la profonda ricerca dietro ogni pagina e riflessione sa dialogare con il mondo, riuscendo a far vibrare i testi che diventano così materia viva e vicinissima al lettore, anche quando affondano le radici in un passato remoto.

Certo Il giardino contro il tempo non è un’opera scorrevole e non tutte le sue parti e digressioni riescono a mantenere parimenti alto il nostro interesse, ma laddove viene catturato è una porta che si apre su giardini segreti da cui sarà difficile andarsene. Sono soprattutto le pagine dedicate al poema di Milton la parte più riuscita dell’opera, pulsante di vita, vibrante: la formazione critica si lega alla passione letteraria e lo sguardo si apre alle innumerevoli implicazioni del testo che così risuona dell’eco della contemporaneità, dimentico in parte del tempo che intercorre. Addentrarsi nel capolavoro di Milton significa necessariamente per Laing anche riflettere sul giardino e, quindi, sull’Eden perduto:

La questione dell’Eden ossessionava l’immaginazione medievale, esistendo come una sorta di paradiso senza caduta, una versione più immaginificamente e fisicamente accessibile, forse persino più allettante, dell’astratto dominio celeste. Dove si trovava di preciso? Che tipo di piante vi crescevano? Lo si poteva localizzare su una mappa? (p. 50)

Laing si sofferma a lungo sul testo miltoniano e il rapporto dell’uomo con l’Eden, le diverse sfumature e significati che nel tempo ha assunto, tornando poi sempre alle parole di Milton. Particolarmente interessante l’attenzione che l’autrice pone sulla reazione di Eva a seguito della cacciata dal Paradiso, il ruolo peculiare da lei svolto, le implicazioni che tale rovina hanno avuto e, ancora, lo squarcio sulla nostra contemporaneità.

Eva, in particolare, dà voce a una desolazione insopportabile nel rendersi conto che la sua punizione non è solo la condizione mortale, ma che dovrà lasciare la sua casa e non le sarà più permesso di curare le rose a cui ha dato un nome e che ha sempre innaffiato. La sua luminosa collaborazione con il giardino è finita. D’ora in poi, parte della sua condanna sarà l’allontanamento e l’alienazione dalla natura, la coltura di malerbe in un terreno sterile, un futuro disperato verso il quale stiamo andando anche noi. (p. 67)

Pur non essendo tra i temi centrali del volume, Laing non manca di riflettere brevemente sul cambiamento climatico, tra le urgenze del nostro tempo, l’impatto dell’uomo sull’ambiente naturale e un processo che purtroppo appare ormai come irreversibile.

Ma è soprattutto la lettura politica del giardino ad aver colpito profondamente la mia attenzione, quello che Laing definisce proprio «problema politico»: di fronte a un giardino, di qualsiasi aspetto e dimensione, non possiamo dimenticare infatti la già citata disparità resa evidente dai mesi di lockdown e, di particolare interesse, il rapporto tra quello spazio e il colonialismo, la schiavitù. Se, come sottolinea l’autrice, «un giardino, un parco sembrano più innocenti – persino virtuosi – della statua di un mercante di schiavi», non va ignorato infatti il legame nascosto con il colonialismo e la schiavitù; un legame che è tanto dell’origine esotica di certe piante importate per quella «mania coloniale di caccia alle essenze vegetali», quanto delle ricchezze realizzate con i profitti della schiavitù attraverso cui il paesaggio inglese è stato abbellito.

La riflessione di Laing si allarga dunque anche al discorso sulla terra come privilegio per pochi, in contrasto con quello che invece dovrebbe essere un diritto di tutti e la storia del giardino, fin dalle sue origini bibliche, «è la storia di cosa o di chi ne viene escluso o cacciato», specie vegetale o esseri umani. Osservando certi meravigliosi giardini d’Inghilterra è necessario per Laing riflettere quindi anche su come la loro costruzione sia stata finanziata «dalle piantagioni di zucchero, di cotone e di tabacco dell’America e delle Indie Occidentali», con lo stesso sguardo critico con cui ultimamente giudichiamo le imprese di uomini ai quali sono dedicate statue nelle piazze e intitolate strade delle nostre città.

Volevo esplorare entrambi i tipi di storie di giardini: valutare il costo della costruzione del paradiso, ma anche scrutare nel passato e, se possibile, trovare versioni dell’Eden che non fossero fondate sull’esclusione e sullo sfruttamento, ma accogliessero idee vitali per i difficili anni a venire. (p. 32)

Il giardino è uno spazio circoscritto, che tiene fuori qualcuno e seleziona accuratamente cosa e chi contenere invece al suo interno: per Laing è dunque anche l’occasione per ripercorrere brevemente le motivazioni e le conseguenze degli Enclosure Act che approvavano la recinzione di quelli che fino a poco tempo prima erano spazi comuni, un «processo di privatizzazione, un’appropriazione legittimata da una raffica di nuove leggi» per mezzo del quale la terra veniva sottratta ai braccianti che la coltivavano e trasformata in fondi privati per nuovi proprietari. Un discorso che riguarda la divisione dello spazio da comune a privato, ma anche i metodi di coltivazione e lo sfruttamento del suolo, la società, il capitalismo. Tra giardini reali e letterari, presente e passato, Oliva Laing tesse una rete di rimandi, riflessioni, spunti che dal particolare e dall’esperienza diretta e personale abbracciano luoghi e geografie diverse, fornendo al lettore l’occasione di ragionare su aspetti importanti intorno al tema del giardino. Il sogno d’infanzia di Laing di un giardino da curare e dentro il quale trovare rifugio si realizza da adulta con quella casa nel Suffolk e il restauro di spazi interni ed esterni è anche un omaggio a chi è venuto prima: Mark Rumary, l’architetto paesaggista cui si accennava, le cui orme Laing ripercorre alla ricerca dell’identità del luogo. E, ancora una volta, la biografia si intreccia alla narrazione, la vicenda di Rumary sfiora quella di Laing e della sua famiglia d’origine in quella che per lei bambina ha rappresentato una sorta di cacciata dal suo personale Eden, la fine dell’innocenza, il paradiso perduto. La perdita del paradiso di echi miltoniani, ci ricorda Laing, è qualcosa di cui ognuno di noi ha avuto in qualche forma esperienza, concreta o più legata alla sfera dei sentimenti. Sarà anche per questo che, ancora, quei versi risuonano in noi. Come la promessa racchiusa nel finale, una possibilità di speranza.

Debora Lambruschini