Percival Everett è uno degli scrittori più poliedrici, ambiziosi e interessanti del panorama letterario contemporaneo. Leggerlo è una meravigliosa sfida per il lettore che di volta in volta non saprà mai che cosa aspettarsi da lui. Con James, uscito pochi mesi negli Stati Uniti e da qualche settimana tradotto in italiano da Andrea Silvestri per La nave di Teseo, si conferma scrittore di talento fuori dal comune, ambizioso, capace di confrontarsi con la tradizione e rinnovarla. Questo romanzo, infatti, parte da quello che la critica considera il testo fondante della narrativa americana moderna, ossia Le avventure di Huckeberry Finn di Mark Twain, e lo rilegge dal punto di vista di uno dei suoi personaggi più interessanti: Jim, lo schiavo fuggiasco, compagno d’avventure di Huck lungo il fiume Mississippi. Everett si addentra nel testo originale per portare alla luce tutta l’intensità di un personaggio a cui Twain, pur straordinario narratore, non aveva potuto rendere giustizia fino in fondo; qualche segnale che sotto la superficie ci fosse qualcosa di più era evidente anche nel testo originale, ma resta un romanzo del proprio tempo (il 1884) e la narrazione è tutta concentrata sulla crescita morale e umana di Huck. Everett sceglie quindi di confrontarsi con Le avventure di Huckleberry Finn per raccontare la vicenda dal punto di vista e, soprattutto, con la voce di Jim, colmando gli spazi vuoti della narrazione di Twain, concentrando tutta l’attenzione sulla profondità e complessità del protagonista. Ed Everett, da sempre attento a non farsi definire scrittore afroamericano ma, semplicemente, scrittore, porta questa volta al centro la questione razziale, in un romanzo che si colloca in un tempo storico ben preciso ma che tuttavia non manca di appigli alla contemporaneità per certe sfumature e le riflessioni che comporta.
Parto dalla lingua, uno degli aspetti più interessanti del romanzo e dalle molteplici implicazioni: l’intreccio di black speech e inglese normativo è la cifra stilistica della versione originale di James, richiamo al romanzo di Twain ma caricato di nuove sfumature. Uno degli aspetti più innovativi de Le avventure di Huckleberry Finn sono infatti le scelte linguistiche di Twain e i diversi registri adoperati, in particolare l’uso peculiare del black speech utilizzato da Jim, ma come anche l’inglese non proprio normativo del suo compagno di avventure. Everett riprende il black speech ma caricandolo di un significato nuovo: Jim, infatti, utilizza quel linguaggio solo in presenza dei bianchi, indossando una maschera per rispondere alle aspettative degli schiavisti e, in questo modo, proteggere se stesso. Perché Jim in realtà – e qui il primo, fondamentale scarto con il testo di Twain – non corrisponde affatto all’immagine dello schiavo voluta dai bianchi: anni prima, di nascosto, ha imparato a leggere, attingendo alla fornita biblioteca del giudice Thatcher e, a sua volta, ha insegnato a leggere agli altri schiavi della zona.
Ogni volta che mi ero intrufolato là dentro mi ero domandato cosa avrebbero fatto i bianchi a uno schiavo che aveva imparato a leggere. Cosa avrebbero fatto a uno schiavo che aveva insegnato ad altri schiavi a leggere? (p. 60)
Non è solo il linguaggio, quindi, ma ciò che ne consegue: la conoscenza è emancipazione, è l’identità che a poco a poco smette di essere celata. È Jim, che diventa James. Se il lavoro di traduzione merita sempre la gratitudine da parte dei lettori e il rispetto verso un mestiere complesso, nel caso di James Andrea Silvestri si è trovato su una strada piena di insidie, che ha saputo percorrere in modo egregio, dando prova di una capacità di ascolto e adattamento del testo originale davvero notevoli. La lingua, quindi, ha un ruolo centrale in questo romanzo, tanto per ciò che ne ha saputo fare l’autore quanto per quello che rappresenta per il protagonista. La cultura diventa strumento di emancipazione, il linguaggio parte del personaggio che Jim decide di volta in volta di interpretare, lo schiavo sottomesso e ignorante, la persona che realmente è. Costantemente attento a usare nel giusto contesto ora un registro ora l’altro, nel corso del lungo viaggio con Huck, giorno dopo giorno a stretto contatto ed emotivamente sempre più vicini, Jim a tratti abbassa le difese e si esprime in «quel modo strano», ben diverso da come Huck lo ha sempre sentito parlare. Ma è un attimo, Jim torna a calarsi nel suo ruolo. Per proteggere sé stesso, per proteggere gli altri schiavi a cui ha insegnato il trucco, per proteggere lo stesso Huck dalla verità che lo riguarda.
Più ancora del discorso sullo schiavismo che, è chiaro, rappresenta una parte tanto importante della storia di Jim, è proprio il concetto di identità a mio parere il fulcro del romanzo di Everett, intrecciato a molteplici altre riflessioni e spunti. È Jim che assume di fronte al mondo l’identità di James, un pezzo alla volta, abbandonando la maschera dello schiavo sottomesso, ignorante, a malapena umano nella concezione del padrone.
[…] a terrorizzarlo non era tanto la pistola, quanto il mio linguaggio, il fatto che non mi conformavo alle sue aspettative […]. (p. 320)
Quella che per Huck inizia come un’avventura in fuga da un padre alcolizzato e violento, per Jim è qualcosa da cui non si può tornare indietro, un atto di ribellione che potrebbe costargli la vita o quella dei propri cari, ma che diventa una presa di coscienza tale da rendere impossibile pensarsi nuovamente schiavo. Nel restituire a Jim tutta la dignità di essere James, Everett rende inoltre il personaggio particolarmente complesso, fatto di carne e sangue, caricandolo di quelle stratificazioni e ambivalenze che sono proprie dell’umanità e del mondo. Il desiderio di libertà si intreccia quindi al dolore di fronte alla perdita, all’ingiustizia, alla meschinità e all’indifferenza, per trasformarsi anche in rabbia e sete di vendetta. Jim-James non è lo stereotipo dello schiavo nero come le avventure sue e di Huck non sono una favola buonista e moralizzante, non lo era davvero per Twain, non lo può essere per Everett. Quella di James è la storia di un uomo che si interroga sulla società e sulle persone, che non si dividono nettamente tra buone e cattive, perché la realtà è molto più complessa. Come lo è lui stesso, capace di azioni violente ma di fronte alle quali non può fare a meno di chiedersi se sia «malvagio distruggere il malvagio». Per mezzo della storia di James, Everett – e Twain con lui – racconta anche l’anima di un Paese fondato sulla violenza e sul sangue, dove non basta condannare lo schiavismo perché questo venga abolito.
Un uomo che si rifiutava di possedere schiavi ma non aveva nulla in contrario al fatto che altri ne possedessero era pur sempre uno schiavista, a mio modo di vedere. (p. 196)
Valeva allora per lo schiavismo, vale tuttora per altre forme di razzismo e odio, non basta dire di essere contrari, è necessario agire. Come è necessario, ancora, scegliere con cura le parole. Ciò che fa Everett è rivendicare la potenza delle parole, che creano mondi, costruiscono identità. Ecco, allora, perché James sceglie “nemico”, anziché oppressore:
Scelsi la parola nemico e continuo a usarla tuttora, perché oppressore implica necessariamente una vittima. (p. 105)
Una differenza importante, perché chiamarsi vittima implica esserlo. Le parole, il linguaggio, sono parte dell’identità di James e usarle, metterle perfino su carta, diventa un atto sovvertivo, la presa di coscienza più profonda che un uomo possa avere: «Con la mia matita ho scritto me stesso, portandomi all’esistenza», e credo non ci sia dichiarazione più fulgida e potente del ruolo primario delle parole nel costruire noi stessi. Risiede qui la forza straordinaria di questo romanzo, candidato al Booker Prize – e il cielo sa se Everett meriterebbe ogni premio letterario inventato dall’uomo – che non va assolutamente sminuito come esperimento di riscrittura di un classico della narrativa statunitense perché, è evidente, James è molto altro. Prende il mito, vi si addentra, ne fa il pretesto per scandagliare l’animo umano, le contraddizioni di un Paese e le nostre; dispiega il linguaggio in tutto il suo potenziale e ci ricorda che in fondo siamo fatti di parole e di storie. E di come le parole, appunto, siano tanto profondamente parte di noi, quanto sia necessario scegliere quelle che meglio ci definiscono.
«Mi chiamano Jim. Devo ancora scegliermi un nome. Secondo i sermoni religiosi dei miei carcerieri bianchi, sono una vittima della maledizione di Cam. I cosiddetti padroni bianchi non sono capaci di ammettere la propria crudeltà e avidità, e devono volgersi a quel menzognero frate domenicano in cerca di una giustificazione religiosa. Ma io non lascerò che questa condizione mi definisca. Non lascerò che la paura, l’indignazione prendano il sopravvento su di me, sulla mia mente. Se è inevitabile che sia indignato, non lo sarò più del solito. Ma ciò che mi interessa è come i segni che sto incidendo su questa pagina possano assumere un senso. Se possono avere un senso, allora la vita può avere un senso, e allora anche la mia esistenza può avere un senso. (p. 68)
Debora Lambruschini
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