Qui non c'è niente per te, ricordi?
di Sarah Rose Etter
La Nuova Frontiera, settembre 2024
Traduzione di Lorenzo Medici
pp. 288
€ 18,50 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
In un mondo che sembra ormai abituato alla continua crisi sociale, civile e umanitaria, in cui perfino immaginare distopie è diventato difficile, visto che la realtà sembra superare l’immaginazione, come può la letteratura rappresentare la società in cui viviamo? Come può il linguaggio rispecchiare un mondo al collasso, usare le parole per evocare le domande giuste – e magari anche provare a rispondervi?
Sarah Rose Etter,
ormai al suo secondo romanzo (qui la recensione del primo) sembra aver trovato
una risposta, un’urgenza narrativa che risuona nelle opere di moltissime altre
narratrici statunitensi contemporanee, da Carmen Maria Machado a Dizz Tate, da Julia Armfield a Alexandra Kleeman: rifuggendo il realismo e ricercando
nuove forme per raffigurare la realtà, che non mirino a rispecchiarla in forma
scritta, ma che puntino invece a sfruttare il cambio di medium per evocare
sensazioni reali e realistiche a partire da un linguaggio che, riconoscendo i
propri limiti, collassa su sé stesso.
Se in Il libro
di X, prima opera dell’autrice, il confine tra realtà e surrealtà era
estremamente frastagliato, in Qui non c’è niente per te, ricordi? Etter affina
la sua voce e sceglie una strategia più diretta, ma non meno affilata: la
protagonista, Cassie (significativamente omonima della protagonista del
precedente romanzo, come fosse la sua equivalente in un mondo diverso) si è
trasferita nella Silicon Valley per lavorare in una start up. La sua vita si
dipana tra tremendi abusi al lavoro e totale assenza di gratificazione nella
vita personale: una vita come tante, diremmo, che Etter racconta senza
sentimentalismi, con un realismo graffiante, lasciando che sia la densità
emotiva della vita di Cassie ad aggredire il lettore, dalle sue telefonate piene
di nostalgia al padre lontano fino alle sue reazioni forzatamente composte di fronte
al veleno di capi e colleghi, i Credenti che fanno della loro carriera la loro
intera personalità:
Eccellenza, produttività a raffica, corpi asciutti, ottimizzazione, logica, al top della forma. Non fermarti. Non fermarti mai. Continua a lavorare. Sei meglio degli altri. Non hai bisogno di cibo. Non hai bisogno di zuccheri. Lavora più sodo. Lavora più sodo. Lavora più sodo. Cresci più che puoi. Trascendi le tue paure. Lascia a casa i sentimenti. Conta solo il risultato. (…) Quasi mi perdo nel ronzio della produttività. Ma sotto la cancellazione delle voci dall’elenco delle cose-da-fare, sotto la maschera della finta me, c’è un suono che mi rimbomba dentro il petto come un tamburo; il mio cuore che canta: no, no, no. (p. 33)
Ma a complementare e controbilanciare questo
realismo affettivo, Etter inserisce lo sperimentalismo figurativo
e linguistico che la caratterizza, creando un'armonia in cui realtà e linguaggio, materia e significato si fondono. Se la sensazione di vivere in un incubo che
Cassie evoca è difficilmente raffigurabile, a colpire nell’anima il lettore
interviene l’immagine di un buco nero che la segue dappertutto, fin da quando
era piccola, ingrandendosi e rimpicciolendosi a seconda dei suoi stati d’animo.
Il buco nero fluttua sopra il posto vuoto alla mia sinistra. Dal centro emana un calore oscuro. Un odore metallico mi travolge, il profumo dello spazio aperto. Nessun altro può vederlo. È mio e mio soltanto. Lo è sempre stato. (9)
Illustrazioni,
definizioni di parole prese dal dizionario, pagine di appunti di Cassie: la
narrazione nuda e appuntita viene squadernata dallo sperimentalismo linguistico,
grafico e immaginifico che è ormai una cifra stilistica dell’autrice, dando
vita a una commistione ancora più estrema rispetto al suo romanzo precedente, e
che fa ben sperare rispetto ai prossimi lavori di quest’autrice da tenere d’occhio.
Che ci tiene ben stretti mentre Cassie va alla deriva verso un finale
inevitabile, dopo il quale il ritorno alla realtà non sarà facile, perché per
il lettore non sarà più possibile vederla come prima. O forse, come non è mai
stata.
Marta Olivi