Bocca di strega
di Sacha Naspini
edizioni e/o, agosto 2024
pp. 190
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
In una Maremma alle soglie del boom economico,
il tombarolo Guido Sacchetti, nome
di battaglia Bardo, detta legge. Ha approfittato della temperie della Seconda
guerra mondiale per accumulare reperti nei boschi e per arricchirsi, e nel
farlo ha trascinato con sé la popolazione di Baratti e Populonia, creando un piccolo impero fondato su ossequio e
riconoscenza. Nella regione in cui hanno prosperato gli Etruschi, «il cuore della crescita è nascosto e batte
sottoterra» (p. 13), e Bardo crea una banda al proprio servizio, a cui
aggrega anche il figlio Giovanni, che «addestra
come un soldato» per farne «una copia
di sé» (p. 14). Il gruppo dei fedelissimi agisce in gran segreto, per
riportare alla luce preziosi che verranno rivenduti e, in alcuni casi,
arriveranno fin negli Stati Uniti, tra musei e collezioni private.
Il narratore è esterno, ma si colloca all’altezza dei suoi personaggi, in una sorta di regressione verista che si fa portavoce del punto di vista della comunità:
Si parla di anticaglie, mica di sterminare persone. La terra restituisce oggetti che fanno gola in tutta Europa e oltreoceano, darli allo Stato suona come una bestemmia. Gli scantinati dei musei scoppiano di reperti con su scritto un numerino; la ricettazione salva i cristiani. (p. 13)
A ogni nuovo volume il lettore non può che stupirsi della lingua duttile, eclettica di Naspini, che riesce a essere a tempo
incisiva e attenta alle sfumature. Come in Villa del seminario, anche qui i tratti
del parlato maremmano compenetrano la narrazione, le danno forma e
sostanza. E del resto è proprio quando torna a queste ambientazioni, che
conosce e ama, che l’autore dà il meglio di sé.
In una narrazione che è stringente fin dalle prime righe, si scopre che l’unica debolezza di Bardo è la moglie Elisa, che mal tollera la vita di lui e teme per Giovanni, il quale idolatra ed emula il padre. Sempre più ossessionata e rancorosa, la donna finisce per denunciare il marito e i suoi compagni, alienandosi le simpatie dell’intero paese. La sua morte improvvisa, avvenuta a detta di tutti per crepacuore, getta Bardo nell’abisso dell’alcool e dei sensi di colpa, spingendolo a cercare sua volta l’oblio nel mare. E se sembra che siano state date fin qui troppe informazioni, si tenga conto che questo è solo il preludio all’azione.
Nelle pagine successive, infatti, focalizzando alternativamente la prospettiva su diversi comprimari, il quadro si amplia, a ridefinire gli eventi che hanno preceduto la scomparsa del tombarolo, il declino del suo impero, e le conseguenze che ne derivano. I personaggi che affollano le pagine si animano grazie all’uso sapiente della parola, vengono catturati in pochi tocchi veloci, come i ricettatori viterbesi, che si presentano in paese, al ristorante la Conchiglia, gestito dalla famiglia Sacchetti e vero e proprio quartier generale del gruppo, per comprendere le ragioni della sparizione del loro interlocutore:
D’un tratto [Bardo] cominciò a mancare agli appuntamenti con i viterbesi. Un giorno arrivarono alla Conchiglia per chiedere spiegazioni. Due ometti da nulla, vestiti male e con le pance gonfie. Sudavano come bestie. Uno aveva un occhio bianco, l’altro arrancava un po’ per via della gamba destra. Portava gli zoccoli di legno. Aveva un ditone fasciato. (p. 24)
Appare subito evidente lo scarto che sussiste tra i tombaroli della Maremma, col loro animo picaresco e un po’ guascone, con un’etica precisa e uno slancio a suo modo idealistico, e i criminali veri, che portano nel paese la violenza, il ricatto, le armi:
Era dai tempi della guerra che non vedevano un’arma. Ma più di quello: mai, mai, mai era accaduto che parlando di Etruschi fosse saltata fuori roba del genere. Trafficavano reperti, mica rapinavano banche. E invece eccolo lì: un ferro. La cosa che faceva più impressione era il grilletto. Aveva perso la vernice. (p. 25)
La loro apparizione cambia tutto: per gli uomini della banda, le spedizioni a caccia di sepolcri erano un’avventura non scevra di divertimento, la possibilità anche di avere «una vita segreta» oltre alle giornate in fabbrica, i quartieri popolari, le famiglie indigenti. Nel momento in cui però subentra la minaccia, gli equilibri si guastano irrimediabilmente: «la magia delle tombe era appena andata in frantumi» (p. 26). Ognuno si trova messo di fronte alle proprie ragioni: Alarico e Biondo, in pensiero per la loro famiglia; Leagro con l’inquietudine che lo domina; Giovanni, ormai detto Veleno, che vorrebbe prendere il posto del padre scomparso, ma non ne ha il carattere e rischia di mandare tutto a monte con iniziative avventate… alcuni punti di vista aprono scorci inaspettati sul carattere del Bardo, come nel caso della prostituta Silvana, che lui visita ogni mercoledì per raccontarle dei libri che ha letto durante la settimana; o di Ciocio, guardia del corpo di Veleno, che guarda con preoccupazione il sentimento che nasce tra quest’ultimo e sua figlia, entrambi segnati dall’abbandono da parte di un genitore.
Dopo aver perso entrambi i genitori, al ragazzo toccava anche questo peso: la sua presenza non aveva influito. Su di lui volteggiava un Guido Sacchetti che diceva: “Non sei stato l’amore grande capace di salvarmi”. Che Veleno avesse deciso di superare quel genitore al suo stesso gioco era il minimo. Uno impazzisce per molto meno. lo stesso sconcerto a volte attraversava gli occhi di Maristella: la fuga di una madre è un marchio che non si toglie più. […] Scollarsi, diventare altro, come una ripicca. (p. 73)
Con sempre maggior efficacia Naspini riesce a dar voce all’umanità di Populonia, di cui i tombaroli sono solo una
delle molte facce. La scelta della focalizzazione
interna variabile rivela una realtà
poliedrica, multisfaccettata, che va dal pesciaio di via Bologna al
marchese decaduto. Bardo, del resto, era riuscito a mettere insieme «un’armata di soldati dormienti» (p. 72),
su cui l’autore accende momentaneamente i riflettori. Gente normale, ma in
realtà accomunata da una vita
sotterranea e notturna, da una «malattia»
che è ben lungi dal poter essere ridotta solo alla brama di denaro, ma ha
invece molto a che vedere con le antiche
tradizioni e le superstizioni di una comunità, con il senso di un localismo da valorizzare.
Nel gergo locale, l’espressione “bocca di strega”
implica qualcosa di losco, sordido e inaffidabile, ma è anche la trappola che può essere ordita per
smascherare i traditori. Veleno, irrequieto e sospettoso, ne tende una ai
danni di chi ritiene essergli nemico. Nel gioco
delle parti che Naspini costruisce, però, le informazioni vengono fornite
poco alla volta: nessuno dei personaggi ha chiaro il quadro generale, e così
neppure il lettore. Ciò consente improvvisi
scarti e disvelamenti di trama, e di conseguenza il mantenimento della
curiosità, che si inarca progressivamente fino a un colpo di scena finale
tutt’altro che scontato.
Come aveva fatto con alcuni dei romanzi precedenti, Naspini cala nelle vite dei suoi personaggi, per mostrare il contributo che il singolo può dare con la propria storia piccola – sia essa individuale, o parte di una più ampia dimensione comunitaria – alla grande Storia, col suo retaggio di memorie e leggende, garbugli e misteri irrisolti. Nel farlo, crea un protagonista straordinario: se in Villa del seminario il ciabattino René si trovava coinvolto negli eventi suo malgrado, qui Bardo è vero e proprio deus ex machina, colui che muove le fila di ciò che lo circonda, producendo esiti in grado di trascendere di molto la portata del suo braccio.
Carolina Pernigo
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