Fra le righe. Il piacere di tradurre
di Silvia Pareschi
Laterza, settembre 2024
pp. 144
€ 16 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)
La penna di Silvia Pareschi è già una presenza familiare a parecchi lettori italiani, ma forse la maggior parte di loro non si sono mai accorti di lei; gli autori e le autrici che in Italia parlano con la sua voce sono innumerevoli, uno su tutti il celeberrimo Jonathan Franzen. È questa la magia della traduzione: prestarsi ad altri, scomparire il più possibile ma senza mai perdere la consapevolezza e la responsabilità della propria presenza. Ma per fortuna abbiamo ora anche un libro in cui Silvia Pareschi, dopo essersi prestata alla buona riuscita di così tanti libri, veste finalmente i panni dell’autrice e ci regala un viaggio straordinario dentro la sua professione: un gioiellino da leggersi in un sol fiato.
Ed è proprio
tipico di chi traduce partire con l’indicare i propri compagni di viaggio,
dalle persone che ormai venticinque anni fa le hanno mostrato la bellezza di
questo mestiere fino a coloro che, libro dopo libro, l’hanno supportata, dentro
e fuori le varie case editrici – fino ad includere gli autori stessi, con
i quali Pareschi ha sempre intrattenuto, per quanto possibile, un floridissimo
dialogo. I carteggi con Jonathan Franzen e Don DeLillo riportati nel libro,
oltre ad essere estremamente interessanti, sono un preziosissimo esempio di
quanto ogni libro in traduzione che troviamo in libreria sia il prodotto finale
di un percorso lungo e complicato, un processo di immersione totale in altre
vite, mondi e linguaggi: come se ogni libro contenesse centinaia di altre
storie.
Ogni decisione che si prende quando si traduce - e il processo traduttivo è fatto di continue microdecisioni - deve essere sostenuta da un solido iceberg di fatto di riflessioni e ricerche. (p. 88)
Per questo la
metafora dell’iceberg sommerso usata da Pareschi è così accurata: perché se il
prodotto finale è la punta dell’iceberg, sotto, a sostenerlo, c’è un enorme quantità
di lavoro, studi, ricerche. E non solo. C’è l’ambiente dove quel lavoro è stato
svolto, che sia la propria scrivania o le residenze per traduttori di cui
Pareschi ci parla; ci sono le persone a cui si sono chiesti consigli,
suggerimenti o opinioni; ci sono gli infiniti mezzi di cui ogni traduttrice o
traduttore si serve; e c’è la traduttrice stessa, che nel tradurre porta con sé
la sua professionalità, ma anche il modo unico e irripetibile con cui usa,
plasma, maneggia il linguaggio e i suoi effetti.
Per questo, dopo averci accompagnato in un lungo viaggio, dal primissimo approccio traduttivo con Franzen fino allo spanglish di Junot Díaz, dagli ardui giochi di parole di Amy Hempel fino al fascino delle… parolacce, e dopo una conclusione illustre con un capitolo intero dedicato all’esperienza di traduzione di Il vecchio e il mare di Ernest Hemingway, Pareschi aggiunge un affilato riassunto di un argomento su cui si è pronunciata spesso, con un’autorità che ormai le è vastamente riconosciuta: il rapporto tra intelligenza artificiale e traduzione. La sua posizione, saldamente puntellata da interventi teorici ma anche da esempi pratici di quanto siano disastrosi gli esiti della “traduzione” letteraria operata da Deepl e affini, è che, per quanto l’intelligenza artificiale sia celebrata come inarrestabile nei suoi progressi, è per ora impensabile che possa sviluppare la capacità di discernere, di capire, di sentire che è necessaria per la traduzione letteraria. E se questo libro ci ha dimostrato qualcosa, è proprio questo: per tradurre è necessaria non solo una forte professionalità, ma anche una postura etica e una sensibilità d'animo che solo gli umani possono avere – e che Silvia Pareschi sicuramente ha.
Marta Olivi