Per il suo primo festival, Wunderkammer, Neri Pozza ha voluto allestire, anche letteralmente, una camera delle meraviglie, all’interno del Palazzo della Gran Guardia di Verona. Accoglie il visitatore una rassegna di totem dedicata agli autori e alle autrici di punta della casa editrice, alle pareti le loro citazioni ("Le storie sono l’unica cosa che rende reale il mondo. Tutto il resto è sogno", Lisa Jewell).
Il tema, Fusioni, rimanda all’incontro tra le arti, promosso e incarnato dall’uomo che fu Neri Pozza, ma anche a quelli che avranno luogo in questi giorni, tra gli scrittori e i lettori. La promessa è quella di un viaggio che ci condurrà attraverso il tempo e lo spazio, a vivere il senso più profondo - e sempre condiviso - del fare cultura, coltivare insieme passioni e desideri, attraverso lo strumento prezioso dato dalla parola, scritta e pronunciata. Il presidente di Neri Pozza, Luciano Vescovi, dichiara la sua appassionata adesione alla produzione della casa editrice, capace di generare, a ogni nuova edizione, a ogni nuovo volume, una piccola Wunderkammer. Nel riportare una nota citazione di Margaret Tatcher, Vescovi ci ricorda che sono i pensieri e le parole a plasmare il nostro esistere.
Nathan Thrall a Wunderkammer |
L’incontro di apertura accoglie Nathan Thrall, giornalista americano che risiede a Gerusalemme, premio Pulitzer e autore di Un giorno nella vita di Abed Salama. Il sottotitolo “Anatomia di una tragedia a Gerusalemme” riporta alla natura dell’opera: la narrazione di un evento tragico ma piccolo diventa il cuore di una investigazione che vuole spiegare le lacerazioni di una terra contesa.
La moderatrice Francesca Mazzocchi introduce la presentazione osservando come, prima di chiedersi di cosa stiamo parlando, sia fondamentale chiedersi a chi stiamo parlando. È stata questa domanda infatti a spingere l’autore a cambiare la sua scrittura, a mettere in gioco tutto per provare a cambiare, nel suo piccolo, le cose. Lo ha mosso la disperazione, spiega, quella di fronte a un mondo per larga parte indifferente a ciò che accade in Israele e Palestina. Rivolgersi a un pubblico di esperti non gli bastava più, anche perché loro stessi erano parte del sistema, rappresentavano quindi un pubblico sbagliato. Da qui la necessità di cercare uno spazio diverso, e quindi di adottare uno stile diverso, in grado di entrare in contatto con la gente, di forzare le sue resistenze emotive parlando di storie individuali, ma in grado di rappresentare un conflitto più grande. Il libro racconta un destino ordinario, un incidente stradale in cui hanno perso la vita dei bambini, lungo quella che viene chiamata la “strada della morte”. Mazzocchi, in proposito, mette in luce la capacità di Thrall di raccontare l’immobilità, la crudeltà inamovibile dei muri, e dei posti di blocco, la tragedia che si annida nel quotidiano.
Gli obiettivi nella stesura del libro erano molti, spiega l’autore: voleva raccontare una storia singola, che aiutasse i lettori a mettersi nei panni di qualcuno che passa i suoi giorni in quelle zone di guerra, israeliano o palestinese non era il punto. Voleva poi aiutare a comprendere la Storia, quella con la S maiuscola, ma anche a capire cosa significhi vivere in una Paese in cui impera la burocrazia, in cui la complessità delle procedure crea un senso di paralisi per chi la abita. Voleva permettere alle persone di capire cosa significhi vivere sulla propria pelle questa situazione, in questo caso cosa provi un padre che ha perso suo figlio, e non sa come raggiungerlo, dove trovarlo.
Uno degli aspetti più importanti di questo libro è stato il rapporto che si è creato con il protagonista, Abed Salama, racconta l’autore. Quando viaggia per presentare il libro, lo rende orgoglioso poter portare in giro per il mondo il nome di suo figlio. Certo, Thrall è consapevole che la loro condizione - al di là dell’amicizia che li lega - sia estremamente ineguale. A una presentazione a Gerusalemme est, Abed non ha potuto partecipare, benché vivesse a poche miglia di distanza. La sua assenza era quindi a un tempo la dimostrazione del (cattivo) funzionamento del sistema, e della necessità del libro stesso.
“Gli scrittori devono stare nel presente, facendosi carico del fardello del punto di vista”, osserva Mazzocchi, facendo notare che nel romanzo di Thrall ce ne sono diversi, a esprimere un desiderio di esplorare le ragioni dell’Altro, fondamentale per superare le divisioni create da un regime di segregazione che vuole, come scopo primario, impedire di vedere l’altro come un individuo.
La parola più importante, aggiunge Thrall, è uguaglianza, tanto più in quanto è inconcepibile pensarla effettivamente realizzata in un futuro prossimo, forse anche lontano. Anche pensando alla soluzione dei due Stati, infatti, uno dei due avrebbe sicuramente più potere dell’altro. In un futuro in cui sia davvero uguaglianza Israele dovrebbe cedere alcuni privilegi, riconoscere che i diritti debbano essere assegnati al di là del credo religioso. Il partito che in Israele lo sostiene è considerato antisionista, non è nemmeno ammesso al dibattito pubblico. Il sistema è troppo radicato, per questo è difficile pensare a una soluzione. Quando guardiamo al futuro, infatti, se non ci sono degli incentivi al cambiamento, la parte forte non è portata a retrocedere rispetto alle proprie posizioni. Di centimetro in centimetro si nota un leggero spostamento nell’atteggiamento del mondo rispetto a cosa Israele dovrebbe fare, ma si parla di passi minuscoli, ancora insufficienti. Bisogna fare molto di più per ottenere un vero cambiamento, conclude Nathan Thrall.
A cura di Carolina Pernigo
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