Andare contro tutti e tutto: “Le cicogne della Scala” di Silvia Montemurro



Le cicogne della Scala
di Silvia Montemurro
Edizioni E/O, 23 ottobre 2024

pp. 224
€ 18 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)

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Silvia Montemurro, dopo La piccinina, torna a indagare l’infanzia, il ruolo della donna e il desiderio di emancipazione che ha attraversato il genere femminile nel corso dei secoli, scegliendo una via insolita: quella del teatro che, per lungo tempo, ha accolto e respinto le donne.

Violetta ha un sogno: diventare la prima ballerina del teatro La Scala. Può sembrare un sogno come tanti altri, ma Violetta lo decide quando ha appena sette anni ed è impossibile che a quell’età una bambina sappia sul serio cosa “vuole fare da grande”. Eppure, quel desiderio diventa un’ossessione, soprattutto perché essere la prima ballerina significa far contenta la madre, che spinge lei e la sorella Fiamma verso quella strada. D’altronde, la madre, Juliette, era stata una cantante francese che, costretta ad abbandonare le scene d’Oltre d’Alpe, non ha mai rinunciato realmente a quello stile di vita e così spinge le figlie a intraprendere la carriera artistica. Sebbene Violetta si senta costretta, sembra che la vita sul palco non le dispiaccia fin quando, però, un incidente (non tanto accidentale) stronca la sua carriera e i sogni della madre. Caduta dalle scale, Violetta non riuscirà più a ballare, perché resterà zoppa per sempre. Quell’incidente sembra la rovina di tutto: della carriera della bambina, dei sogni della madre e dei progetti di entrambe. 
Eppure, non è proprio dispiaciuta perché le ha donato «quel senso di libertà» (p. 23) che non aveva mai assaporato, dandone l’opportunità di scegliere chi voler diventare. Il rifugio rimarrà La scala, ma questa volta dietro il sipario, nella stanza dei sarti. In accordo con la madre, Violetta trova lì il suo spazio ma anche lì provare a manifestare la propria personalità sembra un’impresa. Lontano dalle luci, La scala, come altre realtà artistiche, sembra accogliere e respingere le donne quando queste intraprendono una strada non consueta e, soprattutto, non prevista («Solo perché sono diversa da te, non significa che quella strana sia io», p. 89). Se in primo momento Violetta si rassegna all’«arte del silenzio, della concentrazione e del sapersi adattare» (p. 34), un musicista le farà cambiare idea, spingendola a combattere i pregiudizi che anche nel teatro incatenavano le donne a precisi ruoli. Quel musicista all’apparenza identico agli altri, è in realtà una donna, costretta a travestirsi per far parte dell’orchestra. Amelia la spinge a infrangere quelle regole, quegli schemi (in primis suoi) che avevano provato a imprigionarla tra quelle stoffe.
« Ti fa male essere donna?».
«Se non posso diventare ciò che voglio, sì» (p. 69)
Se il palcoscenico è il luogo dello spettacolo e del divertimento, è dietro le quinte che si svolgono la storia personale (quella di Violetta e di molte altre) e quella collettiva che si muove dagli anni Venti fino agli Sessanta. Sì, perché il palco, i camerini e le stanze dei sarti sono travolti prima dal Fascismo e poi dalla guerra che cambia tutti i protagonisti di questo spettacolo. 
Le cicogne della Scala è il racconto che parla a tutte quelle ragazze che difficilmente riescono a trovare il loro posto del mondo (come accade a Violetta) che sono alla continua ricerca della propria strada, a prescindere dalle aspettative dei genitori, di quello che il mondo chiede o, semplicemente, di quello che si ha timore a fare. 
Silvia Montemurro torna con una storia ambientata in un’epoca passata in cui non si può non notare un’attenta e sensibile osservazione dei nostri tempi, quelli più contemporanei: dal ruolo della donna, a quello della genitorialità fino all’aspetto fisico. E così come accade a Violetta, guardata e presa in giro per la sua zoppia, mi viene da rimuginare su quanti di noi abbiano subito sguardi o appellativi solo perché in sovrappeso, con gli abiti non “giusti” o, semplicemente, perché l’aspetto esteriore non si adeguava a quello di tutti gli altri.
Il mondo in cui vivevo era incentrato sull’apparenza, dunque sui corpi. E il mio, secondo i canoni della maggior parte delle persone, non era all’altezza. Non più, da anni. (p. 36)
Giada Marzocchi