Ogni quattro anni, a inizio novembre, c’è un martedì in cui mezzo mondo guarda agli Stati Uniti. Nelle strade delle città capita di vedere capannelli di persone in coda davanti a edifici di solito poco frequentati, le vie sono tappezzate di manifesti pieni di slogan e in giro si vedono più poliziotti del solito. (“Come funzionano le elezioni americane”, p. 30)
Il 5 novembre scopriremo chi sarà il nuovo presidente degli Stati Uniti e la cosa ci riguarda un po’ tutti, anche da questa parte dell’oceano. Il sistema elettorale americano ha regole specifiche e le elezioni presidenziali sono una macchina particolarmente complessa: è proprio su questo che si concentra il nuovo numero di Cose spiegate bene, i volumi di approfondimento culturale nati dalla collaborazione tra la casa editrice Iperborea e Il Post. Ogni quattro anni è uscito un paio di mesi fa ed è utilissimo oggi per capire non solo come funzionano quindi le elezioni presidenziali ma anche per riflettere su tematiche varie legate alla politica, alla società, alla cultura. Il volume è particolarmente interessante e ben strutturato, il taglio giornalistico rende i saggi puntuali e di facile accesso anche per un pubblico non specialistico: un testo, quindi, che parte dal funzionamento della macchina elettorale americana per aprire il discorso a ulteriori considerazioni, spunti, tematiche quanto mai urgenti e attuali, dalla questione razziale all’organizzazione del sistema educativo, dal declino del Midwest – e che cosa sia, in fondo, il Midwest stesso – alla fuga dalla California, la discussione sull’aborto, la questione dei latinos e altro ancora. È uno spaccato della società e della politica statunitense che parte dalla ricostruzione storica delle questioni affrontate di volta in volta nei vari saggi per poi concentrare tutta l’attenzione sulla situazione contemporanea. Un ottimo strumento, quindi, per comprendere un po’ meglio non solo come si arriva all’elezione di un Presidente ma anche quali fattori concorrono alla sua nomina e quali impatto tale scelta ha sui cittadini del suo Paese e in certa misura sul resto del mondo. Accanto ci sono anche un paio di saggi di cui francamente fatico a capire la collocazione in questo volume, se non per la semplice comunanza della materia Usa: mi riferisco soprattutto al testo firmato da Marco Cassini, editore di Sur, che pur interessante specie per chi come me lavora con i libri, non trova particolare ragione di essere qui. Nonostante ciò Ogni quattro anni è uno strumento utilissimo per orientarsi in queste ultime decisive settimane prima della nomina del nuovo presidente.
Ma come si arriva fin qui? La macchina elettorale nell’anno delle presidenziali parte a gennaio, con le primarie: i partiti scelgono il proprio candidato, dando il via a una stagione densa di comizi, incontri, dibattiti, copertura mediatica. Il Super Tuesday è il primo giorno decisivo di questa lunga marcia, «durante il quale votano contemporaneamente molti Stati» per scegliere il candidato. A giugno si conclude questa prima fase, a cui segue la convention nazionale durante la quale i delegati decidono infine il candidato del loro partito, uno per parte, che concorrerà quindi alla corsa verso la presidenza. Da questo momento si apre il periodo più caldo delle elezioni, una campagna elettorale che vede i due candidati impegnati in dibattiti televisivi, confronti, eventi rivolti ai loro elettori – con una serrata raccolta fondi fondamentale per il sostentamento della campagna – e incontri con i cittadini. A inizio novembre si tengono le votazioni: vince il candidato che ottiene la maggioranza dei voti dei “grandi elettori”, che attualmente sono 538. Chi sono i grandi elettori? Sono dati dalla somma dei deputati e dei senatori di ogni Stato, il numero varia in base alla popolazione e, di conseguenza, stati più densamente popolati hanno un numero di grandi elettori maggiore rispetto ad altri meno popolati. Se tutto va bene con questa votazione si chiude la campagna e si elegge il nuovo Presidente degli Stati Uniti. Resta quella che fino al 6 gennaio 2021 è sempre stata considerata per lo più una proforma, ossia la convalida da parte del vice presidente in carica e, il 20 gennaio seguente, l’insediamento alla Casa Bianca.
Tuttavia nel 2021, all’epoca delle presidenziali che hanno visto scontrarsi Biden e Trump, la convalida è stata tutt’altro che una semplice proforma e il 6 gennaio 2021 rimarrà una delle giornate più oscure per la democrazia statunitense. Scontenti dei risultati elettorali e incitati dallo sconfitto Trump che sosteneva l’invalidità dell’esito delle votazioni a causa di brogli elettorali e invitava i suoi sostenitori a manifestare il dissenso, un gruppo di estremisti ha assaltato Capitol Hill, sede del Congresso degli Stati Uniti, per impedire all’allora vice presidente Vice la ratifica del voto.
All’organizzazione e alla promozione della manifestazione si erano aggregati diversi protagonisti, da politici vicini a Trump stesso, alcuni suoi collaboratori e ricchi finanziatori, a gruppi radicali di estrema destra e suprematismo bianco, antisemiti e neonazisti. Questi in particolare iniziarono a progettare una partecipazione armata e militare, comunicando l'intenzione di impedire la ratifica dei risultati a ogni costo e con ogni mezzo, tra l’indulgenza di Trump e l’accoglienza degli altri coinvolti nella manifestazione. (“L’assalto al Congresso”, p. 90)
Le scene di violenza sono ben impresse nella nostra memoria, come la posizione ambigua di Trump che ha indugiato a lungo prima di richiamare all’ordine i manifestanti e senza davvero prendere le distanze da tale violenza. Oggi come sappiamo, nonostante i processi e le richieste di impeachment, Trump è di nuovo in corsa per la Casa Bianca, sfidato da Kamala Harris, candidata per i Democratici dopo il ritiro del presidente uscente Joe Biden. Come siamo arrivati qui, l’ascesa di Trump in politica e chi sia l’elettorato dietro lo slogan Make America Great Again è un altro dei nodi cruciali che Ogni quattro anni cerca di affrontare, scardinando qualche stereotipo per ragionare su una società complessa, eterogenea come nessun’altra e soffermandosi su questioni che hanno un grande peso nella politica del Paese, da quella locale fino allo studio ovale.
È il caso, per esempio, dell’istruzione pubblica e del sistema educativo in generale, i cui problemi più radicati sono le disuguaglianze e l’enorme debito studentesco, una piaga quest’ultima che nessuna amministrazione è riuscita a risolvere.
Pensateci, sono il presidente degli Stati Uniti e ho finito di ripagare i debiti studenteschi solo otto anni fa (“La scuola non è come nei film”, p. 57)
A dirlo era l’ex presidente Barak Obama, denunciando una situazione che si fa sempre più problematica e ben lontana da soluzione. Come scarse sembrano oggi le soluzioni per risolvere un’altra annosa questione del sistema educativo statunitense, ossia le disuguaglianze di cui è intriso e che partono dalla divisione del territorio in distretti scolastici finanziati dal singolo stato e dalla città, con quote destinate alla scuola pubblica ben diverse da una zona all’altra. Una questione che si intreccia anche al discorso razziale e alla mancanza di differenza culturale nei distretti e nelle scuole. La tematica razziale è da sempre seppur in forme diverse centrale nella corsa alla Casa Bianca e se è vero che la segregazione è finita da decenni è anche vero che siamo ancora lontanissimi da poter dichiarare gli Stati Uniti – e tutti gli altri Paesi del mondo – una società post razziale. L’omicidio di George Floyd ha infuocato il movimento Black Lives Matter già esistente e dato il via a una serie di manifestazioni contro l’abuso di violenza della polizia nei confronti dei neri, ma è anche l’occasione per riflettere sul razzismo sistemico, sul significato della vittoria di Obama e su che cosa effettivamente sia stata la sua presidenza in questo senso, sull’ascesa di Trump e l’uso di un linguaggio razzista.
Secondo alcune proiezioni, per la prima volta nella storia del paese i bianchi smetteranno di essere la maggioranza assoluta della popolazione entro il 2040, e questo è un dato che molte persone bianche vivono con una crescente preoccupazione, in un modo che influenza senza dubbio le loro tendenze elettorali. (“La lunga storia della questione razziale”, p. 69)
Il discorso razziale si intreccia quindi anche alla questione delle minoranze in un Paese, si diceva, eterogeneo, in cui parte crescente dell’elettorato bianco si sente minacciato e «una parte molto consistente della politica e dei media» sceglie di «aiutarli a indirizzare la loro frustrazione […] facendo leva su una certa dose di ignoranza e di pregiudizio preesistenti». L’ascesa di Trump si lega anche a questo contesto e l’ambiguità di certe sue posizioni, i suoi comportamenti e le opinioni espresse in merito a immigrati – soprattutto messicani e musulmani – fomentano una situazione già di per sé piuttosto complicata.
La narrazione Usa è, lo sappiamo bene noi lettori, legata in modo peculiare alla geografia e ragionare sulla politica porta a osservare mutamenti, criticità e nuovi scenari possibili, crisi che paiono difficili da arginare, identità, luoghi. Emblematici i casi della California e del Texas: negli ultimi anni e per una serie di fattori che vanno dal peggioramento della qualità della vita, l’impatto di fenomeni climatici estremi e la crisi abitativa, un numero crescente di persone ha scelto di andarsene dalla California, in un contro esodo che ha cambiato nettamente la realtà dello stato. Molte delle persone che lasciano la California si sono spostate nel vicino Texas, attratti da vantaggi fiscali e migliori possibilità abitative. Ma se all’inizio il governo locale vedeva in questo improvviso interesse per il Texas un’opportunità da sfruttare, anni dopo questa migrazione estesa la situazione inizia a farsi complessa e le strategie politiche non sembrano aver dato una risposta adeguata al cambiamento in atto, tanto demografico quanto economico. Il rischio è che il Texas stesso possa ritrovarsi presto a dover affrontare problemi simili a quelli della California.
Le situazioni cambiano e le politiche inadeguate possono avere conseguenze gravi da cui è difficile riprendersi, come nel caso per esempio della città di Flint, poco distante da Ditroit, in quello che qualche decennio fa era il «cuore produttivo del Paese», il Midwest, «sede delle più grandi industrie manufatturiere e soprattutto di enormi aziende automobilistiche». La delocalizzazione e l’automatizzazione dei processi produttivi, insieme appunto a politiche scellerate hanno decretato la fine del periodo di prosperità che e sviluppo che caratterizzava l’area fin dal secolo scorso. Le città hanno iniziato a spopolarsi e i livelli di criminalità e povertà sono aumentati in maniera preoccupante. Il simbolo più evidente di questo declino e dell’insieme di fattori che hanno portato alla rovina è la città di Flint appunto, che a seguito del crollo del settore automobilistico divenne sempre più povera e nelle mani della criminalità, trasformandosi «in un posto da evitare». Non solo, le scelte politiche avventate – per non dire criminali – danneggiarono profondamente la rete idrica e la salute dei cittadini, un’emergenza sanitaria le cui «conseguenze dureranno ancora a lungo».
Sono le molte facce dell’America, tra democrazia, possibilità, cambiamento e crisi, di cui il volume Ogni quattro anni mette ben in evidenza gli aspetti più legati alla politica e alle elezioni presidenziali, in un quadro che per sua natura non può dirsi esaustivo ma che rende senza dubbio più chiara la complessa macchina verso l’elezione del nuovo presidente e, come sempre i libri dovrebbero fare, ci spinge a riflettere su questioni che riguardano tutti noi, americani o meno.
Debora Lambruschini
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