Liturgia del disprezzo
di Antoine Volodine
66thand2nd, settembre 2024
Traduzione di Anna D'Elia
€ 17 (cartaceo)
Avrebbe voluto allontanare da me l'assalto della ruggine, tenermi lontano dal sudore della folla, così compatta intorno a noi, ma non poteva assolutamente farlo. Penso non intuisse appieno fino a che punto la violenza aggressiva di tutti i giorni mi lasciasse indifferente. Io intuivo, invece, dalla pressione delle sue dita, quanto odiasse il paesaggio della nostra esistenza, uno sfondo fatto di strade lucenti, tram, fabbriche, case diroccate. Io non provavo nulla del genere; che io sappia, neanche gli altri componenti della famiglia condividevano una simile avversione. (pp. 68-69)
Esperimento che aderisce al movimento per cui Volodine è diventato famoso - il post-esotismo, una sorta di manifesto letterario dell'altrove e dell'analisi della catastrofe - questo romanzo dal titolo splendente ci porta dentro la mente e il mondo del protagonista, che è anche narratore, un alieno dalla forma indefinibile, che io ho interpretato come una chimera di peli, artigli e chele di granchio.
La narrazione si apre con la cronaca di un violento interrogatorio da parte di un generale di guerriglia circa i ricordi frammentati del protagonista: non si capisce perfettamente se tace con intento o se davvero fa fatica a ricordare la sua infanzia. Il dubbio nasce perché nei capitoli successivi pezzi di passato emergono con una ricchezza di dettagli significativa: ciò che lega i primi anni di questo piccolo (o grande?) alieno è l'attraversamento su una linea retta del tempo di una serie di zii. Il primo, di cui chiede conto il generale, zio Nilblayer, il violento; il secondo, zio Gochkeit, il burbero cacciatore; il terzo - il suo preferito - zio Pobocsch, dolce e dalle maniere edificanti; il quarto Zio Volp, magico, misterioso, una specie di somministratore di eutanasie. E molti altri parenti strambi.
Una famiglia spezzettata in clan, che è stata mandata - insieme a tutte le altre - sulla Terra in qualità di conquistatrice. Solo che gli uomini non sono così facili da sottomettere e per questo, per colpa della leggerezza nel valutarli, dai piani alti agli alieni è stato dato l'ordine di sparpagliarsi nel mondo e assumere le sembianze della razza dominante, moltiplicarsi, lavorare, agire "in borghese" fino a nuovi ordini, che tutto fanno presagire tranne intenti pacifici.
In preda al senso di colpa, spiavo l'oscenità del mondo, cercando di capirne qualcosa in più. Ignoravo ogni cosa. Mi tenevano lontano dai problemi degli adulti, come un appestato all'estremità di un bastone. Avevo sei anni. (p. 67)
Lo scenario è quello post-apocalittico, o meglio, post-nucleare (con Volodine, è tutto un "post"): città in rovina, cieli plumbei, fabbriche che vomitano miasmi fetidi nell'aria, sotterranei lerci, labirinti. In queste descrizioni mi sono spesso venuti in mente i mondi perduti di Mad Max e Fallout. A differenza però degli altri testi dell'autore, dove la speranza non trova spazio e luogo né nelle scenografie né nei personaggi, qui il protagonista - forse perché possiede ancora la coscienza di un bambino millenario - pare portarne qualche barlume. Non così sua madre, gli zii, i parenti né l'umanità tutta. Di fatto è solo e deve imparare a sopravvivere. Anche nel suo raccontare la Terra e gli uomini visti dal di fuori, come farebbe un qualsiasi alieno "dall'alto", lui racconta con una certa arrendevolezza, quasi dolcezza, e anche un pizzico di ironia. Non c'è però nulla che gli permette di indugiarvi. Parliamo pur sempre di Volodine e quindi la distopia prende il sopravvento.
L'autore riprende ancora una volta alcuni suoi capisaldi: l'importanza e la fallacia della memoria, il ruolo di vittime e carcerieri, la potenza delle immagini, l'incursione della politica e della militanza. Non c'è da sorprendere quindi di non riuscire immediatamente a entrare nel romanzo: come spesso capita con i testi di Volodine, bisogna avere tantissima pazienza e non scoraggiarsi alle prime pagine che possono sembrare confuse o prive di agganci reali. Ancora una volta, nonostante qui parli di specie aliena, Volodine dà voce agli ultimi, agli emarginati, ai dissidenti, alla faccia povera e depressa del sistema, anche in forma di piccoli esseri sformati e dall'intelligenza pericolosa.
Non un testo semplice, dalla scrittura fangosa, intricata (anche se meno rispetto ai precedenti romanzi). Posso consigliarlo solo a chi ama Volodine: l'autore ha uno stile unico e inimitabile, e non si può associare a nessun'altra penna contemporanea. Personalmente, ho fatto un po' fatica nel ritmo di lettura: spesso ho avuto bisogno di rileggere i passaggi due volte, specialmente nelle prime venti pagine, e di tornare su alcuni paragrafi per capire bene a cosa si legava il discorso: a volte, a niente, altre volte - come il finale - avevano una connessione narrativa non immediata, ma bisognosa di un lavoro di logica.
Qual è il disprezzo di cui parla nel titolo, ad esempio? Potrebbe essere quello degli uomini nei confronti della specie invasiva, relegata ai margini; potrebbe essere, al contrario, quella degli alieni nei confronti dell'uomo, una sorta di rabbia covata nell'ombra e negli anni con l'intento di farla gonfiare tanto da diventare esplosiva; potrebbe essere quella violenta del generale per il protagonista, o quella più sottile nei panni dell'addestramento somministratogli dagli zii di turno. Non c'è una vera risposta.
Con Volodine ci vogliono indulgenza e un ventaglio di possibili interpretazioni spesso non risolvibili.
Deborah D'Addetta
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