Affronto la questione di petto, senza tergiversare o ignorare l’elefante nella stanza: in questo ultimo romanzo di Richard Ford, Per sempre, appena pubblicato da Feltrinelli nella traduzione di Cristiana Mennella non ho ritrovato l’autore che amo e stimo dai tempi di Sportwriter, il primo volume in cui fece la sua comparsa Frank Bascombe, alter ego letterario dello scrittore. E non certo perché non sia un buon romanzo, ma per uno scrittore della caratura di Ford “buono” non è sufficiente. C’è dell’amarezza in quello che scrivo, perché davvero avrei desiderato per quello che è stato annunciato come l’ultimo libro della serie sul buon vecchio Bascombe un’uscita di scena più grandiosa e non un testo invece che si colloca a fatica nella bibliografia straordinaria di Ford. Questo disappunto o delusione che dir si voglia, è anche l’occasione per riflettere sulla questione da un punto di vista più ampio: che cosa vogliamo dai nostri scrittori? È giusto giudicare un testo in rapporto al resto della produzione letteraria di un autore o gli stiamo facendo un torto e dovremmo invece considerare l’opera singola, scevra da confronti pure se interni? E, ancora, come influisce l’età anagrafica sulla scrittura? Non so se sarò in grado di rispondere adeguatamente a queste domande, ma ciò che mi interessa è aprire il dialogo con voi, lettori, e tentare di tracciare un percorso, tra i romanzi di Ford che ci hanno portato fino a qui, tra le scelte editoriali, tra i mutamenti della scrittura.
Qualcosa di simile era già capitato a inizio anno con Lucy davanti al mare di Elizabeth Strout: come Ford vincitrice di un premio Pulitzer – Ford con Il giorno dell’Indipendenza, secondo volume dedicato a Bascombe, Strout con Olive Kitteridge, in cui compare per la prima volta il suo celebre personaggio – e di una serie di testi in cui faceva capolino, a volte protagonista assoluta altre più celata, un personaggio ricorrente, la Lucy del titolo appunto; Mi chiamo Lucy Barton (qui la lettura di Debora e qui la lettura di Gloria), primo volume della “serie”, è davvero un gioiello, la lingua è tesa e le immagini potenti, una forza narrativa che non si ritrova pienamente nell’ultimo romanzo, che pure resta un’opera interessante. C’è però una distanza troppo marcata tra opere di questo tipo – i primi Bascombe e i primi testi con Lucy Barton – per restare indifferenti e non chiedersi che cosa sia accaduto alla scrittura. Romanzi che se fossero usciti dalla penna di autori diversi avremmo senza dubbio apprezzato di più, ma verso due fuoriclasse della narrativa come Ford e Strout le aspettative sono altissime. Forse anche questo è il problema. Dovremmo liberarci dunque delle attese e giudicare l’opera svincolata dall’autore e dal resto della sua produzione? Va detto a tal proposito che i romanzi in questione sono tutto sommato autonomi e, quindi, è possibile leggerli senza conoscere i testi che li hanno preceduti, anche se questo a mio parere ne pregiudica un po’ la ricezione. Oppure, al contrario, ne preserva la ricezione. Leggo Ford e Strout da molti anni, quindi non posso rispondere a questo interrogativo e, per il tipo di lettrice-critico che sono l’opera si colloca in un discorso letterario più ampio, tanto nella bibliografia dell’autore quanto nel contesto letterario di riferimento.
Che fare, dunque, con Per sempre di Ford? Ne prendo il buono – molto, sia chiaro – che c’è, cercando il più possibile di mettere a tacere quella voce che mi ricorda a quali livelli la scrittura di Ford è sempre stata capace di arrivare e che non trovano qui adeguato corrispettivo, ma non ne ignoro mancanze e debolezze. E non posso fare a meno di ragionare anche su un passaggio di un’intervista in cui Ford rifletteva piuttosto aspramente sul lavoro che la nuova editor assegnatagli stava facendo sul suo romanzo, non limitandosi a quello che secondo lui sarebbe il lavoro di editing, ossia semplicemente «cercare nel tuo libro errori d’ortografia, grammaticali, di punteggiatura, e magari in casi limite segnalare se c’è qualcosa di incoerente, di cui forse l’autore non si è accorto»; invece sono state modificate intere frasi, ne sono state cancellate altre, con interventi dunque piuttosto profondi sul testo. Una questione anche questa sulla quale si potrebbe ragionare a lungo e, d’altra parte, il rapporto scrittore-editor è da sempre complesso quando non proprio problematico. Ford, sicuro della propria scrittura – e su questo non possiamo certo dargli torto – e inorridito dall’essere stato affiancato da un sensitive reader (la «polizia morale» come la definisce lui), nuova pericolosa mania tutta anglosassone, alla fine ha scelto di lavorare in autonomia sulle revisioni e salutare la casa editrice, con la quale dopotutto non c’erano accordi per altri libri.
Per sempre, dunque, le cui premesse lo facevano presagire come il romanzo più cupo della serie di Bascombe e che invece, sorprendentemente, non si è rivelato tale: perché Frank, che adesso ha settantacinque anni, si ritrova ad accudire il figlio Paul, malato di Sla in fase molto avanzata. La vita di Bascombe non è stata priva di dolori: due divorzi, la perdita della prima moglie, la morte di figlio in tenera età, un tumore alla prostata dal quale è guarito; sul fronte professionale, qualche amarezza per non essere riuscito a diventare lo scrittore che sognava di essere, il ripiego come giornalista sportivo, poi il lavoro da agente immobiliare. La perdita, il dolore, sono sentimenti con cui ha fatto – o non ha fatto – i conti nel corso della sua vita, fin dalla morte della madre, qui rievocata nelle prime pagine del romanzo e che danno in qualche modo il tono alla narrazione tutta che, inaspettatamente dicevo, si concentra su una cosa ben precisa: l’idea di felicità.
Ultimamente penso alla felicità di più rispetto a prima. Non è una riflessione oziosa in nessuna fase della vita; ma per me, che sono nato nel 1945 e mi avvicino all’età massima prevista dalla Bibbia, è un argomento da un milione di dollari. (p. 9, incipit)
Inaspettato, appunto, perché Per sempre è la storia di un padre e di un figlio che lentamente sta morendo, dopo che le cure sperimentali alle quali si è sottoposto non hanno dato i risultati sperati. E se, quindi, la morte, la malattia e il dolore fanno necessariamente parte di questa storia, c’è di fondo un’ironia che attraversa ogni pagina e ogni dialogo e, più in generale, una riflessione profondissima sul tema della felicità, che segna un cambio di rotta netto rispetto a quanto ci si sarebbe aspettati. È qui, in questa inversione, che risiede la forza del romanzo di Ford e attraverso la quale si perdonano – più o meno – alcune mancanze, da una certa artificiosità di certi passaggi e dialoghi a quella distanza che l’autore sembra ormai aver messo tra il mondo rappresentato sulla pagina e gli elementi identificativi della realtà contemporanea. A proposito di questo: Luca Pantarotto un paio di anni fa scriveva un breve saggio molto interessante su come la tecnologia fosse assente o quasi da buona parte della letteratura statunitense, un cortocircuito davvero strano nel Paese che tanto ha contribuito al progresso tecnologico, denotando «l’incapacità degli scrittori di sintonizzarsi davvero con il proprio tempo». Per Ford è, a suo dire, una questione anagrafica, la distanza da una realtà che non comprende più e se idealmente non trovo sia un peccato mortale escludere la tecnologia da questo capitolo della storia di Frank e Paul, l’effetto è però un po’ straniante e più di una volta la sensazione è quella di una narrazione sospesa nel tempo, non sempre in senso positivo.
Si diceva, però, del tema della felicità: non per ingannare la morte ma per dare dignità alla vita, Frank ritorna alle parole di tanti anni prima pronunciate dalla madre morente, dalla sua esortazione a essere felice e ci si sofferma in quel momento preciso, di fronte all’ineluttabilità della perdita del figlio, pensando alla sua personale idea di felicità. Non si arrischia più di tanto a immaginare i sentimenti di Paul, che restano per lo più privati e un mistero per il padre, ultimi brandelli di indipendenza nell’aggravarsi di una malattia che lo costringerà sempre più a dipendere dalle cure degli altri, per ogni esigenza. E dunque, in quelle ultime settimane in cui la malattia non ha ancora privato Paul di un minimo grado di mobilità, viene convinto dal padre a partire per un viaggio, solo loro due, a bordo di un vecchio e piccolissimo camper, verso il Mount Rushmore. È «un ultimo tentativo di felicità» prima dell’inevitabile, un ricordo, un’esperienza che, sanno benissimo entrambi, non può racchiudere una vita tutta e l’intero rapporto padre-figlio.
Ecco, c’è in certe pagine di Ford una profonda umanità e il desiderio di raccontare la vita non edulcorata dalle pennellate della scrittura e che fa la sua comparsa anche in questo romanzo, aprendo squarci. Nel farlo, talvolta, entra in collisione con la nostra sensibilità, i nostri pregiudizi e gli stereotipi che volendo o no fanno parte dell’esperienza umana – uno su tutti, per me, le modalità con cui Frank apprende della malattia del figlio e la sua reazione –, ma, passato lo sgomento iniziale, appare evidente che era il solo modo possibile per raccontare la storia di Frank, la sua di esperienza umana, non la nostra e, nel farlo, Ford ha raccontato la vita tutta e l’uomo. È evidente, quindi, che la lettura di questo romanzo non si possa ridurre a “bello/brutto”, come per altro nessuna storia dovrebbe mai essere ridotta, checché se ne dica sui social: è molto più complicato di così, addentrarsi tra le pagine ha a che fare con la nostra esperienza di lettori di Ford, con ciò che chiediamo agli scrittori che amiamo, con una scrittura che inevitabilmente cambia e non sempre è un male. E c’è, in queste pagine, un uomo del suo tempo che si muove in un mondo che a tratti stenta a riconoscere, quartieri che cambiano e nuovi rapporti di vicinato, la violenza di un Paese dove ogni giorno in un centro commerciale o una scuola o per strada rischi di essere ucciso da un’arma da fuoco; c’è il dolore, quello passato e quello attuale:
[…] sono qui, vivo, per cercare di stare sempre un passo avanti alla morte, resto in vita perché mio figlio non si senta solo quando lascerà la vita. È l’unico modo in cui riesco a dare un senso a tutto quanto. (p. 48)
Per sempre è il romanzo meno perfetto di Ford, il più doloroso forse, ironico, pungente, di un autore che sfida regole e convenzioni e che non ha bisogno di chiedere il permesso né la nostra approvazione.
Debora Lambruschini
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