Quanto pesano le parole nella vita di ognuno? "Liberata", la protagonista del romanzo di Domenico Dara, lo sa

Dara-Liberata

Liberata
di Domenico Dara
Feltrinelli, 2024

pp. 381
€ 19,00 (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)

Guardava il mondo che le stava intorno incasellandolo nei quadrati immaginari dei fotoromanzi: scorci, volti, particolari, racchiudeva tutto il visibile dentro un reticolo regolare e non mancava occasione, in quei momenti, di riflettersi appena possibile in una superficie limpida - lo specchietto di un'auto, il vetro di una finestra - per sentirsi anche lei in una fotografia, la comparsa di una storia che si andava scrivendo. (p. 21)

Liberata ha ventiquattro anni, abita in un piccolo centro della Calabria, lontano dalle grandi città, dove conduce una vita normale. La famiglia, i piccoli lavoretti da stenografa e impiegata, l'amica del cuore... E una grandissima passione, smisurata, per i fotoromanzi, le riviste che tanto andavano di moda in quegli anni e che raccontavano storie d'amore per immagini, in bianco e nero, con didascalie e nuvolette per i dialoghi. Una sorta di fumetto, ma veicolato attraverso foto. I giornali di allora si chiamavano Sabrina, Letizia, Charme, Sogno, anche Grand Hotel (un poco diverso però rispetto agli altri). Una casa editrice, la Lancio, era la regina incontrastata di queste riviste. Chi era ragazza in quegli anni sospirerà di nostalgia nel leggere i nomi di Franco Gasparri, bellissimo e tenebroso, Franco Dani, Claudia Rivelli, Michela Roc e altri attori e attrici che interpretavano queste storie d'amore quasi sempre ostacolate da qualche inghippo ma sempre a lieto fine. Antenati delle serie tv, i fotoromanzi permettevano di vivere in un mondo diverso. Lontano da quelle immagini di violenza spesso veicolate dai telegiornali di allora. Istantanee di un mondo ormai lontano, in bianco e nero,  come i fotogrammi delle pagine Lancio.

Liberata è una lettrice accanita di fotoromanzi, possiede addirittura un casotto in giardino con una collezione maniacalmente tenuta di tutti i numeri delle riviste, lette e rilette, tanto che riesce a pescare da un ricordo o un fotogramma, la storia, il numero preciso della rivista e l'anno di uscita. Liberata legge l'intero mondo attraverso i fotoromanzi, che sono per lei una chiave di lettura attraverso la quale interpretare quanto accade; le storie le forniscono i codici per capirlo e le frasi per spiegarlo. Tutto ciò che può succedere è riconducibile a quanto già descritto nelle pagine delle sue riviste preferite e lei, che non ama apparire né vivere da protagonista, si rifugia dietro le sue letture per nascondere la sua ritrosia a gettarsi nel fermento della vita vera. Fatta di tanti piccoli particolari che Liberata ama fermare nel tempo scattando foto con la sua macchina Polaroid, immagini che diventano istantanee pronte a raccontare un momento, un evento. Liberata diventa così sceneggiatrice della propria vita, incasella incontri, pensieri e vicende in foto quadrate, proprio come nei suoi amati fotoromanzi. Ridisegna e riscrive, secondo un suo codice personale, quanto le accade e quello che le gira intorno. Anzi, fa di più, scattando foto del suo piccolo universo (che poi usa spedire al suo grande amore di carta, Franco Gasparri, alla sede trasteverina della Lancio), crea il fotoromanzo della sua vita. Incline alla solitudine, al vivere quieto, ai sogni, alla fantasia, Liberata crede soprattutto a quello che nella vita non si vede e ritiene che l'invisibile sia parte fondamentale dell'esistenza di ognuno.

Siamo negli anni Settanta e, mentre al telegiornale scorrono immagini di atti terroristici compiuti dagli estremisti, la vita al paese scorre tranquilla. Fino al giorno in cui, sul muro della farmacia, non compare una grossa stella a cinque punte, simbolo delle Brigate Rosse. Nel contempo nei paesi circostanti si verificano atti tremendi: nelle piccole chiese le Madonne vengono trovate decapitate. In tutto questo fermento, anche la vita di Liberata subisce uno scossone: all'officina del padre arriva il nuovo meccanico, Luvio, un bellissimo giovane di cui la ragazza s'innamora all'istante, ricambiata. E così sentirsi proiettata dentro un fotoromanzo di Sabrina è un attimo. Tutto bene? Vedrete.

Liberata è un romanzo nel quale le parole hanno un ruolo fondamentale. Quelle dette e soprattutto quelle non dette. Anche quelle scritte sono importanti: il lavoro stesso di Liberata consiste nello scrivere a macchina parole dettate da altri, quelle burocratiche degli atti notarili o quelle belle, immaginifiche di un forestiero che ha scritto un romanzo su alcuni quaderni che Liberata trascrive a macchina e che la portano in un mondo di parole evocative, perfette per esprimere pensieri e sentimenti.

E quando anche le parole finiscono, si muore. (p. 55)

Il nome stesso della protagonista è una parola di senso compiuto (soprattutto per la madre), un participio passato, in forma di aggettivo, Liberata. Un nome che lei si diverte a cambiare, alla fine di alcuni capitoli, con la stessa formula, utilizzando altri aggettivi o nomi comuni, malinconica, illuminata, imbambolata, irrequieta, imprudenza... «Malinconica. Che poteva essere un bel nome per chiamarsi. Malinconica. Malinconica Macrì» (p. 64).

Ma non ci sono solo le parole per interpretare il mondo: da brava stenografa

si era convinta che quell'alfabeto di segni e forme poteva applicarsi alla sua realtà, che anche Natura comunicava attraverso un personale codice stenografico che lei doveva interpretare, perché spesso siamo confusi e non sappiamo parlare e non comprendiamo e ci sentiamo stranieri alla vita semplicemente perché utilizziamo un linguaggio sbagliato, che non ci appartiene, e allora, in mancanza di codici a noi congeniali, a volte l'unica soluzione è sapersi inventare un proprio alfabeto. (p. 80)

Che è esattamente quello che fa la protagonista del libro. Liberata ha la testa piena di pensieri, vive per lo più nel suo mondo interiore e utilizza il suo proprio codice personale per leggere la vita, «ma se si ricorre all'invisibile è perché la vita non basta. Ma a lei quell'invisibile fatto di pensieri e immaginazioni la vita gliel'aveva riempita» (p, 336). 

Il tuffo nella vita reale, grazie al fidanzamento con Luvio, metterà a dura prova Liberata, la costringerà a lasciare da parte i propri codici interpretativi per provare a mettersi in linea con quelli degli altri, con il mondo che la preme da ogni parte, a partire (o a patire?) dall'amore quello vero, non quello letto sui fotoromanzi. Ma è amore vero quello di Luvio? E perché a un certo punto si discosta così tanto dalle storie romanzate? Liberata è disorientata... che poteva essere un bel nome per chiamarsi...

Quello che c'è di vero in questo romanzo è l'aria del tempo: Dara è maestro nel ricreare l'atmosfera di un piccolo paese di provincia di quegli anni Settanta, con la vitalità dei personaggi che ruotano intorno a Liberata: il padre, molto amato, comprensivo, tenero, amante degli insetti, entomologo collezionista, la madre tutta casa e chiesa, intenta solo a soddisfare i bisogni spirituali nelle forme tipiche della religiosità di provincia, la festa del santo patrono, le ghirlande, le novene, le reliquie, vere o finte che siano, Giuditta l'amica vivace ed estroversa, Beccaria, il sagrestano problematico e soprattutto Glauco, l'edicolante con un segreto, un personaggio che dà il segno dell'inesorabilità del tempo e del cambiamento che si porta appresso. La sua edicola rappresenta, infatti, come accadeva anni fa, uno dei punti focali del paese, insieme alla farmacia, alla chiesa, allo studio medico, al droghiere. Tutti, ogni giorno, passano dall'edicola per comprare giornali, riviste, dispense e il chiosco diventa così il punto nevralgico del pettegolezzo, nel senso buono del termine, della notizia, del commento. In questo nostro periodo, segnato dalla sparizione delle edicole che arricchivano le strade cittadine e le menti dei cittadini, ricordare la bellezza delle edicole fa un certo effetto.

Il romanzo è scritto bene, anzi benissimo, lo stile è coinvolgente, il linguaggio strutturato e dovizioso, ricco di vocaboli appropriati. L'architettura linguistica mira a creare una lingua espressiva, che rispecchia il parlato (e il pensato) dei personaggi. Per questo non è un italiano puro, bensì contiene sfumature dialettali ed espressioni locali che danno un colore senza usare parole in dialetto, se non in qualche dialogo dove proprio il vernacolo serve a caratterizzare l'eloquio di quel dato personaggio. A mio parere, però, l'autore fa un uso troppo insistito del "che polivalente", narrativo o esplicativo. Qualche esempio? «Glauco la guardava con compassione, che in quel momento si pentiva di averglielo detto» (p. 273). «Lei continuò a scendere un gradino per volta, che non sapeva cosa avrebbe potuto trovare» (p. 365). «Liberata in quell'attimo preciso smise di pregare, che non ci poteva credere» (p. 249). Il significato è chiaro, sempre, ma l'utilizzo, fin troppo frequente, del costrutto va a caratterizzare il linguaggio in modo troppo marcato in senso colloquiale.

Per certi versi Liberata può anche essere definito un romanzo di formazione. Il confronto con la realtà, anche duro e spietato, fa crescere la ragazza che, proprio come gli insetti tanto amati dal padre, si libererà della sua crisalide o farà come quei ragni che, per sopravvivere, sono in grado di amputarsi di un arto per riacquistare la libertà. Anche Liberata perderà qualcosa in questo suo impatto con la realtà, ma sarà il prezzo per diventare grande.

Sabrina Miglio