Piedi freddi
di Francesca
Melandri
Bompiani,
agosto 2024
pp. 272
€ 17,00
(cartaceo)
€ 11,99
(ebook)
Ma a cosa serve dirci antifascisti cantando Bella ciao, se poi non riconosciamo un fascista come Putin quando ce l’abbiamo davanti? (p. 214)
È il 1943.
L’esercito italiano si ritira dalla campagna di Russia che, durante la
propaganda fascista, viene descritta come la battaglia contro il nemico
comunista. Prima della ritirata, però, i soldati italiani – alleati con quelli
tedeschi – fanno quel che fanno tutti i soldati nei territori occupati: saccheggiano,
violentano, uccidono.
È il
2022. L’esercito russo è nei territori ucraini. La motivazione ufficiale
promossa da Putin per la sua guerra d’occupazione è la denazificazione
dell’Ucraina. Attraverso i social media, però, tutti noi vediamo le atrocità commesse
nelle città a est di Kiev: saccheggi, violenze, uccisioni.
È questo
parallelismo fra l’invasione nazifascista dei territori dell’est Europa durante
la seconda guerra mondiale e quella russa di questi anni a dare il la al nuovo
libro di Francesca Melandri, la quale sin dagli esordi in narrativa con Eva
dorme, e poi soprattutto con Più
alto del mare e Sangue
giusto, nulla risparmia al passato poco onorevole dell’Italia.
Soprattutto,
è la consapevolezza, ripetuta fino allo sfinimento nel corso del libro, che
quella guerra di Russia del 1942-43, è stata perlopiù una guerra d’Ucraina,
perché combattuta in prevalenza nelle fertili campagne ucraine. E ancora – e qui
sta la chiave di volta di Piedi freddi – la consapevolezza che il padre
di Francesca Melandri ha partecipato a quella guerra di Russia, e dalla parte “sbagliata”
della storia. Il punto nodale del libro, infatti, ruota intorno a una questione,
sulla quale l’autrice riflette in modo chiaro e con una trasparenza d’intenti
notevole: noi (ossia lei e la sua famiglia ma, per estensione, potremmo dire “moltissimi
italiani”) ci definiamo antifascisti ma siamo in grado di fare realmente i
conti col nostro passato? E soprattutto, davanti a quel che sta accadendo nel
mondo, e nello specifico in Ucraina (ma anche a Gaza, si può aggiungere, e
Melandri lo fa, anche se di sfuggita: i tempi di scrittura, pubblicazione
e stampa, si sa, non sono sempre al pari con gli eventi del mondo, quindi l’invasione
di Gaza da parte di Israele è un fatto che deve essere avvenuto durante o dopo
la stesura di Piedi freddi), in che modo abbiamo reagito?
Piedi
freddi non è un
romanzo, come invece sono i precedenti libri di Melandri. È piuttosto una
combinazione fra saggio e un memoir mascherata da lettera al padre. L’autrice
si rivolge a Franco Melandri, consapevole che questo dialogo è unidirezionale perché
Franco Melandri non c’è più. A lui rivolge considerazioni, domande, dubbi che
avrebbero potuto essere affrontati in vita ma che – per mancanza di tempo, o forse di coraggio – sono emersi solo oggi, in questo momento storico così complesso.
Il libro affronta più volte gli stessi argomenti, torna spesso sugli anni del
fascismo, sul periodo della Liberazione e sul primo dopoguerra, focalizzandosi
sui comportamenti del padre, così poco conciliabili con quelli sempre
affettuosi rivolti alla famiglia e con quanto narrato nel primo dei libri che
Franco Melandri ha pubblicato, quel Ritorno col matto che tanto male
parla delle guerre in generale e di quella di Russia (che, sottolinea sempre l’autrice,
è stata perlopiù d’Ucraina). Anche i paragoni fra anni Quaranta e nuovi anni
Venti (ossia i nostri) tornano spesso, quasi fino allo sfinimento, come a voler
sottolineare che tutte queste considerazioni dovrebbero essere sempre sotto i
nostri occhi. In un romanzo, queste ripetizioni e questo tornare sempre sugli
stessi punti sarebbero stati un problema, perché avrebbero affossato la narrazione; in questo libro, pur rischiando lo stesso problema,
Melandri riesce a evitarlo.
I diversi
capitoli affrontano gli stessi argomenti da punti di vista leggermente diversi,
di fatto andando a coprire tutto lo spettro delle considerazioni possibili. E, soprattutto
dalla metà del testo, l’autrice inizia a fare quel che sa fare meglio:
autoanalisi, e non sono della propria persona ma di un certo tipo di italiano –
borghese, benestante, moderatamente di sinistra. Lo fa non flagellandosi come
un credente in punizione, bensì rivolgendosi le domande giuste e provando a darsi una risposta per quanto possibile onesta.
Le domande che l’autrice rivolge al padre e a se stessa sono le stesse che,
leggendole fra le righe di Piedi freddi, il lettore arriva a porsi. Le risposte
che Melandri si dà potrebbero coincidere con quelle del lettore, o potrebbero
essere diverse, non importa: l’importante è tirarle fuori, metterle nero su
bianco e formulare una considerazione che conduca a un’illuminazione. Questo sembra
essere l’obiettivo di Piedi freddi, che di certo non è un libro d’intrattenimento,
né una rilassante lettura domenicale. È piuttosto un testo scomodo, spigoloso, che
vuole smuovere qualcosa. E lo fa, sia per la ripetizione degli argomenti (possiamo
evadere la domanda una prima o una seconda volta, ma a forza di ritrovarcela
davanti a un certo punto dobbiamo affrontarla), sia per la sincerità con cui
Melandri stessa si mette in gioco.
Il suo esporsi diviene alla fine il nostro esporsi e, legati alla lettura e nella solitudine del nostro rapporto intimo con il libro, ci ritroviamo quasi in un confessionale, protetti dal resto: a questo punto, resistere non ha più senso. Tanto vale essere sinceri, e porci la domanda fondamentale: siamo veramente antifascisti?
David Valentini
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