Ricordo la prima volta in cui mi sono sentito terrone, ero arrivato a Bologna da pochi mesi e uscivo in una comitiva di persone bergamasche, e una di queste mi interrogò, chiedendomi perché avessi scelto di studiare al Nord, anziché rimanere al Sud. La vera ragione non la sapevo del tutto neanche io, ma risposi dicendo, per senso comune, che 'al Sud facciamo così'. Così come? mi ero chiesto poi. Scappare dalla nostra terra, dove sentiamo che non c'è spazio per esprimerci e affermarci come soggetti eccentrici. All'epoca non avevo ancora fatto coming out, e l'idea di essere una persona queer che dovesse mettere la propria sessualità allo scoperto in un ambiente asfittico come quello di un paesino della provincia foggiana mi terrorizzava. Con il tempo, con l'esperienza, con l'interrogarmi sui miei privilegi, ho realizzato quanto la mia visione del mio luogo di origine, delle persone che lo abitavano, fosse in realtà alimentata da una mia demonizzazione dovuta a una narrativa egemonica, che fa del Meridione uno spazio in cui è impossibile pensare di poter fare attivismo, piuttosto che un territorio fertile dove oggi più che mai attecchiscono gli sforzi per costruire nuove narrative situate, dove è necessario riesplorare e pianificare una genealogia di resistenza terrona queer attraverso la quale raccontare l'impegno, l'autodeterminazione, la lotta antipatriarcale. In seguito, durante i miei anni di formazione in teoria transfemminista e studi queer, ho compreso quanto fosse importante per me sovrapporre al mio essere queer il mio essere terrone, e a quanto me ne fossi privato nel tentativo di mescolarmi agli altri, ai normali, allontanandomi dalle mie origini che mi rendevano chi ero, a privarmi del mio accento per cercare un modo giusto di parlare, così come c'era un modo giusto di essere omosessuali normali, senza eccessi, senza eccessiva estrosità.
"A un certo punto della nostra vita, ci siamo accorte che l'esperienza per noi cruciale e rivoluzionaria del femminismo non riusciva a rappresentarci pienamente." Da questo vuoto narrativo parte l'indagine di Claudia Fauzia e Valentina Amenta, autrici del saggio Femminismo terrone: per un'alleanza dei margini, dal senso di inadeguatezza nell'essere delle donne queer e meridionali, e dalla mancanza di rappresentazione all'interno del femminismo del centro.
La saggezza popolare ci ha insegnato che cu mancia fa muddichi: è il prezzo per esporsi, e noi lo accettiamo, rivendicando il diritto a sbagliare e a cambiare idea. Come dice la studiosa Rachele Borghi, «ci appelliamo a sbaglieranza»: ovvero a una presa di responsabilità collettiva che consideri lo sbaglio intrinseco a qualsiasi tentativo di decostruire lo status quo per immaginare nuovi mondi. (p. 13)
Accogliendo dunque la limitatezza dello sguardo dei saperi incarnati, ovvero del posizionarsi come soggettività del margine fatte di privilegi, e quindi non portatrici di un punto di vista univoco per tutte le identità subalterne, l'indagine di Amenta e Fauzia si propone, attraverso un'indagine storico-politica e poi socioculturale, di esplorare le radici di una genealogia femminista terrona, dove la parola 'terrone', esattamente come avvenuto per le parole 'frocio' e 'queer', acquista una nuova veste e un nuovo significato, trasformandosi da insulto, che ricorda a chi ne viene tacciato il proprio legame con la terra, in punto di riferimento, non dimenticandosi che la terra e le radici debbano costituire un luogo a cui appartenere e di cui rivendicare la voce, piuttosto che uno spazio da cui prendere le distanze, omologandosi a uno sguardo del nord, che intende omologare e capitalizzare le identità che divergono dall'idea progressista di colonizzazione interna del Meridione avviata con il Risorgimento, artefice della cosiddetta "Questione Meridionale".
Muovendosi per nuclei tematici, i quattro capitoli del saggio di Valentina Amenta, ricercatrice della Sapienza e dottora in studi di genere, e di Claudia Fauzia, divulgatrice del femminismo terrone tramite il suo alias @la.malafimmina, esplorano il concetto di femminismo dal punto di vista delle donne e persone queer del Sud Italia, portando al centro la specificità dell'esperienza meridionale e le discriminazioni che le persone del Sud affrontano, spesso ignorate anche dai movimenti femministi tradizionali. Per farlo, si avvalgono delle teorie femministe che hanno fatto dei saperi situati il punto di distacco principale dal cosiddetto femminismo della Seconda Ondata, un femminismo bianco ed eurocentrico, che non prevedeva un'indagine sulla resistenza femminista al Sud, e che si limitava piuttosto a riflettere sulla mancanza di accesso ai diritti fondamentali per le donne del Sud o, in senso lato, dei Sud del mondo, un femminismo che parlava per la subalterna poiché non la riteneva in grado di avere una voce propria e di parlare per sé.
I saperi situati, alla base degli studi postcoloniali e transfemministi, promossi da autrici come la poetessa lesbica americana, che usa per prima l'espressione 'politics of location' (politiche del posizionamento), o della scienziata Donna Haraway, che conia per prima il termine 'situaded knowledges', criticano l’idea di una conoscenza "oggettiva" e universale, sostenendo che ogni sapere è influenzato dal contesto storico e personale di chi lo produce. Promuovono una conoscenza consapevole della propria parzialità e impegnata a riconoscere voci e prospettive marginalizzate. Viceversa, gli studi postcoloniali, in dialogo con i saperi situati, hanno contribuito ad evidenziare come la conoscenza e le narrazioni storiche siano influenzate da dinamiche di potere coloniale, privilegiando voci occidentali e marginalizzando altre esperienze. Insieme, saperi situati e critica postcoloniale e decoloniale promuovono una comprensione del sapere che rispetti le prospettive locali, indigene e marginali, riconoscendo la diversità dei contesti da cui ogni conoscenza emerge, ed è seguendo questa metodologia che Amenta e Fauzia incedono con un'analisi seria e dati alla mano nello smantellare il cosiddetto 'North gaze', ovvero lo sguardo del Nord (termine coniato dal 'male gaze' di Laura Mulvey, che oggettiva il corpo delle donne nei media), che oggettiva il Meridione e i suoi soggetti come spazio dell'Altro da addomesticare, e con esso le Alterità incarnate che lo popolano. Il libro esplora il tema dell'antimeridionalismo, ovvero il pregiudizio e la discriminazione verso il Sud, e le diramazioni che esso assume, analizzandolo come un asse di oppressione sistemico che si intreccia con altre forme di discriminazione, come il sessismo, l'omolesbobitransfobia, il classismo e il razzismo.
L’obiettivo è un sapere più inclusivo e responsabile, che indaga non solo, come nel capitolo 2, la cosiddetta "Questione meridionale", fornendone una rilettura decoloniale e passando attraverso l'idea del Sud come storicamente subalterno, ma anche attraverso chi, dal Sud come margine politicizzato, e cioè come punto di vista geolocalizzato della differenza, contesti la narrazione del centro del sapere. Altro aspetto interessante è la decostruzione di un'idea di Meiridone adattata dal cinema e dalla cultura di massa come luogo binario del crimine (si pensi alla figura dell'antieroe criminale di Gomorra) o come locus amoenus fuori dal tempo (si pensi a Il postino di Michael Radford), o alla costruzione di un'idea di donna del Sud, carnale, focosa, bruna e oggettivata come incarnazione del desiderio maschile (si pensi a Monica Bellucci in Malèna di Giuseppe Tornatore). Tutte queste narrative, spesso supportate dalla voce di autori meridionali che ne hanno incentivato la visibilità, hanno contribuito a generare una visione univoca di che cosa sia il Sud, come se fosse un concetto monolitico e non piuttosto un insieme di voci e di esperienze localizzate ed eterogenee. Ecco come nel capitolo 3, "Resistenze terrone", si rammenta che il femminismo terrone è sempre esistito, e che molto spesso la memoria delle azioni di chi ha voluto fare la differenza siano state sommerse da una narrativa egemonica che sembra aver dimenticato, o non aver annoverato abbastanza, chi si è contraddistinta nel contrasto all'eteropatriarcato e al North gaze anzitempo. Viene ricordato il 'no' di Franca Viola, ragazza di Alcamo rapita e stuprata da Filippo Melodia nel 1965, prima donna in Italia a rifiutare il matrimonio riparatore, denunciando il suo stupratore; viene ricordata la personalità della cantautrice Rosa Balistrieri, la sua vita rivoluzionaria, la sua sovversione delle norme di genere e il suo ruolo considerato "disturbante" in un panorama musicale maschile; il contributo di Nino Gennaro, poeta, drammaturgo e attivista che ha costituito un ruolo fondamentale nel movimento queer siciliano, soprattutto negli anni '80 e '90; viene ricordata la resistenza anarco-antimilitarista di Maria Occhipinti, simbolo di lotta e ribellione in Sicilia: nel 1945, incinta, Occhipinti si unì infatti alle proteste contro la leva obbligatoria a Ragusa, guidando una rivolta popolare in un contesto fortemente maschilista e militarizzato.
Si passa infine alla complessa questione degli accenti: Fauzia e Amenta affrontano infatti il tema dell'accento meridionale come elemento d'identità e resistenza. Partono dal fatto che gli accenti del Sud Italia sono spesso soggetti a stereotipi negativi: chi ha un accento marcato è visto come meno istruito e più arretrato, mentre chi lo perde è considerato “più moderno.” Tuttavia, le autrici rifiutano questa logica, rivendicando l’accento come parte fondamentale della loro identità culturale e politica. Come le femministe andaluse e come Gloria Anzaldùa in La Frontera, Amenta e Fauzia vedono l’accento non solo come un modo di parlare, ma come una forma di autodeterminazione e resistenza contro un sistema che svalorizza la cultura meridionale, riducendola a folklore o esotismo. Esse incoraggiano un orgoglio consapevole, che non critica chi ha scelto di adattarsi, ma comprende il contesto di discriminazione che spinge a queste scelte, trasformando l’accento in simbolo di lotta e solidarietà.
Amenta e Fauzia intendono dare voce a un "femminismo terrone" che si distacca dalla visione universalista del femminismo predominante, spesso centrata su istanze che non tengono conto della marginalizzazione del Sud Italia. Questo femminismo riconosce la validità e la ricchezza culturale dei "saperi dei Sud" come strumento di resistenza e spunto per una prospettiva decoloniale e transfemminista. Con uno sguardo che collega le lotte locali con quelle globali, Femminismo Terrone non cerca solo di dare visibilità alle ingiustizie subite dal Sud, ma anche di costruire alleanze tra i Sud d'Europa e altri Sud del mondo.
'Femminismo terrone' è una chiamata all'azione per riconoscere le specificità meridionali come parte integrante del panorama femminista, immaginando un futuro in cui le esperienze e i saperi marginalizzati possano trovare uno spazio di emancipazione, inclusività e giustizia. Come viene ripetuto, la resistenza terrona
passa dal riconoscere la nostra genealogia e dall'esercizio di gratitudine verso tutte le froce, terrone e male fimmine che ci hanno preceduto. (p. 94)
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