Una madre
di Colum McCann con Diane Foley
Feltrinelli, 2024
Traduzione di Marinella Magrì
pp. 239
€ 18,00 (cartaceo)
€ 11,99 (eBook)
Sono passati sette anni dalla morte di Jim. Il mondo intero ha potuto vederla,
attraverso un filmato che mostrava la sua decapitazione per mano di un
jihadista incappucciato. Adesso la madre ha l’occasione di confrontarsi, in
un’aula di tribunale, con uno dei responsabili. Si chiama Diane Foley, ha
settantatré anni ed è una donna forte,
risoluta, piena di dignità. Nelle prime pagine, vediamo affollarsi le
domande, che rivelano il suo stato d’animo inquieto, ma anche la sensibilità
linguistica e narrativa di Colum McCann:
Come condursi? Come onorare questo cuore ferito? Come contenere il dolore? Come guardare quell’uomo negli occhi? Come eludere l’odio? Come utilizzare i meccanismi del proprio ingegno? (p. 16)
Fin da subito, nel volume, vengono contrapposte due figure: da un lato il
reo confesso, Alexanda Kotey, cittadino britannico convertito all’Islam,
militante dell’ISIS, a cui è associato il campo semantico della menzogna, della
ricerca di alibi, della deresponsabilizzazione, di «esibizionismo, diversione, sproloquio» (p. 24); dall’altro James
Wright Foley, Jim per i suoi cari, caratterizzato da un forte senso morale, dal coraggio,
dalla dedizione agli altri e alla causa della verità. È tra loro, ben più che tra Diane Foley e
Kotey, il vero confronto. Jim è infatti presente tra i due, in ogni momento del
dialogo. È a lui che la madre si ispira mentre si interroga sulle proprie
ragioni, sullo scopo del suo essere lì, di voler parlare con un assassino, di
accettare di dargli spazio e voce («Deve
farlo. […] È ciò che avrebbe fatto Jim, per recuperare qualcosa da quella vuota
sterilità. Sapere chi. Sapere perché»,
p. 20).
Opere come questa, o come V13 di
Carrère, finiscono per scuotere e
interrogare profondamente il lettore occidentale. Perché, pur non volendo
giustificare nulla, offrono uno sguardo mosso dalla volontà di comprendere una prospettiva radicalmente altra,
inaccettabile, eppure dotata di una sua intrinseca logica, una logica che cozza
violentemente con quello che è il senso del nostro esistere. Una madre è un inno alla complessità, e alla necessità di scavare in quella
complessità, di non accontentarsi di galleggiare sulla superficie delle cose,
ma di cercarne invece le radici profonde, addentrandosi in un viaggio di esplorazione del sottosuolo
che potrebbe non concludersi. È fondamentale rammentare a ogni passo la natura
ibrida, poliforme, della verità:
se c’è una cosa che negli anni ho imparato è che non esiste una singola verità. La verità è caleidoscopica, ha molti specchi, e la si può osservare sotto numerose angolazioni. La verità migliore, quella più vera, è una verità cumulativa, strutturale. Possiede un nucleo ineffabile che a volte potrebbe essere difficile da raggiungere, e altrettanto difficile da comprendere, ma che ha comunque un centro intorno al quale ruota. (pp. 68-69)
A questo si aggiunge, nell’opera di McCann, la dimensione profondamente umana della narrazione: tanto nelle
sezioni in cui è lo scrittore a mediare la parola, tanto in quelle in cui è la
voce di Diane a dire in prima persona, proprio ciò che non ci si aspetterebbe
di trovare rimbalza dalla pagina con una forza inaspettata – l’empatia, la compassione, la volontà
ostinata di assumere il punto di vista dell’altro, di trovare un significato all’accaduto che non si risolva in una
sterile sete di vendetta.
Il confronto con Kotey inaugura il tempo della ricostruzione, in tutti i sensi possibili. Si può così guardare al passato, alla storia complessiva di Jim, che non si esaurisce nell’orrore dell’esecuzione, e alla sua famiglia, gelata dall’orrore, ma unita, resiliente. Il momento della rivelazione, quello in cui viene divulgato il video dell’uccisione di James, è per i suoi cari uno squarcio improvviso, che riduce improvvisamente al silenzio una speranza mai sopita:
Niente – né gli uccelli all’esterno, né il sole, né il rubinetto gocciolante, né il buio – poté salvarci dal diluvio di dolore. Il male dentro non può essere descritto se non dalla sua propria sofferenza. Ero stata scissa, fatta a pezzi. Niente mi aveva fatto provare qualcosa di lontanamente simile. Niente. L’impatto polverizzante del potere dell’odio. (p. 53)
È da quest’odio che Diane Foley rifugge, grazie anche alla sua fede. Nel romanzo si configurano due opposti usi del nome di Dio: da un lato come schermo, dall’altro come appiglio; da un lato come idolo, cui riservare un’adesione cieca e fanatica, dall’altro come fiamma calda, che alimenta la fiducia, o dà la forza.
Nel mondo c’era una sacralità che ci legava tutti gli uni agli altri. Era una cosa in cui credevo da bambina e in cui credevo ancora con tutta l’anima. Non era il momento di perdere la fede. Semmai, era per noi il momento di riconoscere la profondità del nostro credo e riconoscere ciò che quel credo poteva fare per unirci. (p. 70)
La fede è ciò che permette a Diane e John di sopravvivere alla morte del figlio, ma è anche ciò che spinge Jim stesso a dedicare tutto se stesso agli altri, in una generosità disordinata ma continua, che attraversa gli anni della sua formazione. Dopo il suo primo sequestro, in Libia, Jim inizia a pregare secondo la pratica islamica, cinque volte al giorno. Lo stesso fa in Siria, completando un percorso di conversione che, invece che limitarlo, fa risuonare ancora più forte il suo credo. La riflessione di Diane si fa profonda, perché riflette su un concetto di adesione e preghiera che travalica i singolarismi religiosi, e ha a che vedere con un rapporto intimo dell’individuo con un Dio che accoglie e consola, al di là delle etichette che gli danno i popoli:
per lui era un atto puro, autentico, e operava su entrambi i piani: qualsiasi preghiera riuscisse a dire andava bene. Era pur sempre fede. […] Praticava l’Islam, ma significa forse che per questo dovremmo etichettarlo e ridurlo a una cosa soltanto, o circoscrivere l’estensione della sua fede e del suo credo? (pp. 149-150)
Alla notizia del suo assassinio, la famiglia di Jim si unisce, compatta e straordinaria, nell’affrontare una situazione impossibile per darle forma e senso, per orientarla a un bene futuro («dovevamo fare qualcosa della vita di nostro figlio», p. 59). Farlo implica però scontrarsi con molte resistenze, a partire da quella del sistema ad ammettere le proprie mancanze e ad accettare il cambiamento. Una parte importante della narrazione è volta a sottolineare l’ambiguità della politica, che mette interessi economici e militari davanti alle vite umane. Nel momento del sequestro, il governo degli Stati Uniti si mostra disponibile a parole, ma poco nei fatti: non si tratta con i terroristi, per «proteggere gli ostaggi» si chiede il silenzio stampa, e le famiglie si trovano dunque a doversi fare carico del processo diplomatico inventandosi risorse di cui non dispongono:
Ci disse brutalmente e per la prima volta che gli Stati Uniti non avrebbero svolto alcuna missione di salvataggio, né il governo avrebbe pagato un riscatto o chiesto a un altro paese di aiutarlo a liberare gli ostaggi. Ci rendemmo sempre più conto che in sostanza eravamo soli. (p. 131)
Le parole di Diane Foley non si fermano però all’aspetto della
denuncia. La sua testimonianza mira primariamente a offrire un ritratto del meraviglioso giovane uomo che era suo
figlio, un ritratto ricostruito a posteriori, per lo più attraverso le storie
degli altri. James era infatti un ragazzo che non amava parlare di sé, mettersi
al centro. Lo specchio non era per lui uno strumento di osservazione del sé,
quanto di moltiplicazione del reale. Così i racconti del mondo sono il modo in
cui lui trova la sua strada, ma i racconti su di lui, appresi da chi lo ha
conosciuto, sono il modo in cui i genitori ritrovano il figlio («lo abbiamo conosciuto in seguito, e così ha
seguitato a vivere. […] A tenere insieme il mondo sono anche le storie», p.
87).
Inaspettatamente, Una madre non è un volume in cui si scrive di morte, ma in cui si celebra la vita. In cui si usano,
con una serenità certamente impopolare, parole come “vocazione”, “preghiera”,
“gratitudine”, “coraggio morale” e “perdono”. Un volume che è anche un grande monito, un grande invito: con la
morte non deve necessariamente finire tutto, si può anche decidere di
cominciare, di dare origine a qualcosa di nuovo. Questo è ciò che fa Diane
Foley, la sua scelta. Una sezione del volume, a dire il vero eccessivamente
cronachistica, è dedicata dunque all’eredità di Jim, all’organizzazione fondata
dalla madre per migliorare la gestione del recupero degli ostaggi e supportare
le famiglie. Fondamentale risulta infatti l’idea che il sacrificio delle
vittime non sia stato vano, ma possa trovare senso nel valore della testimonianza che porta, o nella missione di chi sopravvive. E ciò che rimane, più di tutto, alla
fine della lettura, è che non c’è nulla di ingenuo o semplicistico nel perdono
offerto: nel partecipare al processo di uno degli attentatori, nell’incontrare
Alexanda Kotey, Diane Foley attraversa l’ambivalenza e il dubbio, senza che
questi possano mai inficiare la sua fiducia
nell’umano. Perché, come ogni persona di fede, come ogni madre, Diane sa che
il bene genera bene, e che «ogni cosa
buona, una volta avviata, perdura» (p. 234).
Carolina
Pernigo
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