Brucia l’origine
di Daniele Mencarelli
€ 10,99 (ebook)
“Non c’è vita senza croce” (61)
Sulla periferia di Roma gli acquedotti incombono come giganti, elefanti in movimento, e non si sa se arrivano o partono. Anche Gabriele ha lasciato la città d’origine per andare più a nord, in una Milano disorientante e piena di possibilità; ha fatto fortuna come designer, ed è tornato poco in quella che ancora, in qualche recesso intimo del cuore, considera casa. Qualcosa però preme in lui, più forte dell’amore per i genitori, per la sorella che sempre lo attendono, più forte della nostalgia che lo riprende ritrovandosi nei luoghi della sua giovinezza. È la vergogna, bruciante, oscura, che viaggia insieme ai sensi di colpa, per la sua difficoltà ad accettare quel passato reciso: nulla della sua vecchia vita è mai stato ammesso a sfiorare (contaminare?) la nuova. Lui è il burattinaio che costruisce, da anni, un teatrino di bugie in cui muovere coloro che ama, a Roma come a Milano, per tenere le sfere distinte, intatte.
Se la nostalgia si fa sentire come una febbre, delirante o meno, il senso di colpa è più localizzato. Un crampo fra bocca dello stomaco e gola, una specie di reflusso, non di acidi gastrici, ma di coscienza sporca. (p. 43)
Gabriele non è un personaggio che possa risultare simpatico, né del resto
questo è mai l’obiettivo dell’autore. Il suo indulgere nell’autocommiserazione, le menzogne che
elabora e sostiene, il giudizio costante
e impietoso con cui mette a confronto persone e luoghi della sua vita
milanese con quelli romani stridono violentemente con l’affetto e l’entusiasmo
delle persone che gli stanno accanto: la madre Tania, che lo idolatra; la
sorella Giorgia, che gli deve la realizzazione del suo salone da parrucchiera;
gli amici di un tempo, soprattutto Marcello, che lo riaccolgono dopo la lunga
distanza come se non fosse mai andato via. Lo sdegno per tanta ingratitudine
travolge il lettore che, mentre è costretto a patteggiare con l’umanità fragilità del personaggio, si trova a
fare i conti anche con la propria. Perché, a Roma, Gabriele ritrova il suo
accento originario, la capacità di ridere spensierato, di godersi il momento,
ma nulla di tutto ciò basta davvero. La vita milanese, il severo architetto
Zardi, suo mentore e possibile suocero, il progetto del divano Novus da
lanciare sul mercato, tutto lo richiama
e lo tiene avvinto. E brucia
l’origine, come recita il titolo, nel doppio senso del tizzone che arde inestinguibile
nel profondo, sotto la cenere che la copre, e in quello di ciò che scotta tra
le mani e si vorrebbe gettar via, lontano da sé.
Poco lontano dalla casa natia, gli acquedotti, con la loro
successione di archi sempre uguali, rappresentano il filo che unisce il passato al presente, l’ago di una bussola morale.
Seguirli è un modo per ritrovarsi, ma troppi sono gli elementi distrattori, che
trascinano al largo la mente inquieta.
Con una prosa più concreta, rapida e dialogata rispetto a quella a cui Mencarelli ci ha abituati – anche in funzione dei frequenti inserti dialettali legati al parlato – il romanzo sviluppa una riflessione su identità e appartenenza che si articola intorno a domande per lo più senza risposta. Spesso a sollevarle sono gli amici, sorta di coro tragico del tempo presente, che mettono il protagonista davanti alle sue contraddizioni. Il successo, il denaro, sono una benedizione o una maledizione? Consacrarsi alla superficie implica infatti il prezzo di tutto ciò che è incontaminato, prezioso. Mentre ricostruisce faticosamente un rapporto con chi si è lasciato indietro, il protagonista inizia a mettere in discussione le proprie scelte.
Mentre è stretto agli altri, Gabriele sprofonda nella mancanza di qualcosa che non sa nominare. Amicizia. O fratellanza. Oppure, comunione, piena, sincera. Una gioia condivisa senza traccia di falsità. Come quella che lo sta riempiendo in questo momento. Forse, realizzare il suo sogno è stata la sua più grande maledizione. (p. 85)
Come sempre nelle sue opere, Mencarelli affonda lame acuminate nel lettore, che
è costretto a guardarsi allo specchio, a interrogarsi sulla propria stessa
ipocrisia: ha senso parlare di valori, sostenere che i soldi non danno la
felicità, celebrare la propria integrità morale, quando si conduce una vita da
privilegiati? Il sostenere la propria posizione non rischia di sfociare nel
paternalismo, in un sottile senso di superiorità? Più entra in crisi, più lascia
emergere i dubbi, più si abbandona al suo sentire, più Gabriele torna – e
appare – umano. Le sue due vite lo strattonano: da un lato Camilla, bionda,
perfetta e amatissima, che vorrebbe conoscere il suo mondo e non sospetta che
lui la tenga fuori con una barricata di bugie; dall’altra Francesco, Cristiano,
Vanessa e Marcello, che gli rinfacciano la distanza che avvertono, il suo nuovo
sguardo. La lacerazione è profonda, dolorosa, e ogni tentativo di
ricomporla non può che essere illusorio. È anzi proprio nel momento in cui più
pare possibile una pacificazione che entra in scena la
vita, imprevedibile e ingovernabile, come forza incandescente, a sparigliare le
carte.
Il volume è dedicato ai “sommersi”, che in questo caso sono certamente quelli che sono stati lasciati indietro, che non hanno avuto le occasioni, o la volontà, o la forza di cambiare il corso della propria vita e sono rimasti prigionieri di un’esistenza senza prospettive, sempre uguale a se stessa:
“Come hai fatto a rimane’ uguale a otto anni fa, stesso… tutto, stessi posti, stessa vita, identico a come te ricordavo, come hai fatto?” Sembra un complimento, e forse lo è, oppure è l’esatto contrario: un insulto. La constatazione di un’immobilità al limite dell’umano, meglio, la reiterazione della stessa vita senza null’altro a volere. (p. 41)
Al contempo, però, sommerso rischia di essere anche chi, inseguendo il futuro,
recide i legami col passato, amputando
una parte vitale e preziosa di sé. «Ognuno
di noi è passato e presente» (p. 129), commenta Camilla, figura
inaspettatamente positiva all’interno della vicenda, a rappresentare che la
polarizzazione tra Roma e Milano è, per Gabriele, una questione prevalentemente
interiore, e che una ricomposizione avrebbe potuto e dovuto essere ricercata,
quando ancora era possibile farlo, prima di «affogare in un bicchiere vuoto» (p. 68). Eppure Gabriele è sempre in
ritardo, sempre in rincorsa della sua vita, che è «un animale velocissimo, l’uomo […] arranca, prende atto dei suoi
cambiamenti di direzione, delle sue evoluzioni frenetiche, ma è e rimarrà
sempre indietro» (p. 141). Contrapposta all’immobilismo iniziale, questa
impressione di fugacità crea una
vertigine inaspettata, il bisogno quasi disperato di aggrapparsi a qualche
certezza. E, nel decidere quale sia per il suo protagonista il punto di
ancoraggio, Mencarelli ancora una volta ci lascia storditi e senza fiato, in
una conclusione che è difficile da decifrare, come difficile è del resto,
sempre, l’esistenza.
Carolina Pernigo
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