La tenerezza e il dolore nel sogno di un bambino di ritrovare sua madre: il nuovo romanzo di Giuseppe Caputo


 

Stella madre
di Giuseppe Caputo
Polidoro, settembre 2024

Traduzione di Alberto Bile Spadaccini

pp. 333
€ 18 (cartaceo)

Le sue lacrime mi toccavano, e così anche la luce del sole - la stella attraversò il vetro per toccarmi. Mia madre e la stella si fusero: sulla mia faccia, mescolati, c'erano il pianto e la luce. Mia madre era il sole e il sole era mia madre. E fu come se lassù, nel cielo, mia madre piangesse; come se giù, sul letto, il sole mi riscaldasse. Da quel giorno, il sole lo chiamo madre sole, o stella madre. A ogni alba, splendendo nel cielo, torna a dirmi: «Sono qui» in un pianto di raggi. Ma mia madre non è con me. Da quando se n'è andata è passato del tempo. Mi disse che sarebbe tornata, ed è per questo che la sto aspettando. «Sono qui» mi consola madre sole. La giornata è cominciata, ma non mi alzo dal letto. Preferisco raggomitolarmi, orizzontale e triste, e pensare a lei. «Sono qui» ripete la luce. Lei non c'è; io abbraccio il suo cuscino. (p. 13)

C'è una sorta di malia che mi prende quando leggo i romanzi di Giuseppe Caputo. In Stella Madre si potrebbe dire ci sia un riverbero delle tematiche già trattate nel suo testo precedente, Un mondo orfano, e - se è possibile - una poetica ancora più struggente e malinconica. Caputo, autore colombiano tradotto in Italia da Polidoro, resta ben piantato in un'indagine che parte dai rapporti familiari più intimi e stretti, quelli coi genitori, e ne fa una scusa per dilatare il discorso fino ai massimi sistemi: l'amore, la morte, l'appartenenza a un luogo, il lutto, la definizione di sé.

Se in Un mondo orfano il focus era sul rapporto speciale tra il protagonista e suo padre, qui in Stella madre (come suggerisce anche il titolo) il dualismo si concentra tutto su un bambino e sua madre. Una madre peculiare, misteriosa, che nonostante ami tantissimo suo figlio, a un certo punto sparisce (la madre smette quei panni per riappropriarsi del suo essere donna). Abbandona lui e la casa, che diventa il territorio di esplorazione del protagonista, e di lei si perdono le tracce.

Questa della casa, ho notato, è una tematica molto sentita nella letteratura sudamericana: la casa è un vero e proprio personaggio, vive, respira, risponde, si adatta agli umori dei suoi abitanti. Nel romanzo di Caputo, la casa diventa un surrogato della madre assente: il bambino sposta il suo affetto verso una finestra su cui ha attaccato la fotografia della madre, e il sole, che in certi momenti della giornata illumina proprio quella finestra, a sua volta diventa un simbolo, come se l'astro volesse dargli conforto. Anche in questo dettaglio c'è un'evoluzione rispetto al romanzo precedente: Un mondo orfano era un romanzo crepuscolare, oscuro, buio, tutto incentrato sulla notte e i suoi pericoli, e sulla luna come bussola per il protagonista. Qui, Caputo decide di invertire la tendenza: nonostante la nostalgia e il rimpianto di cui è impregnata la storia, è il sole che guida le azioni di tutti, in senso letterale e figurato.

Il sole che, ovviamente, non è altro che una figurazione simbolica della madre.

Poi un altro disse: «Demoliamo!» e altri replicarono: «Sissignore!». Mia madre si lamentò: «Sempre la stessa storia, da quando ero bambina!» e, rivolta agli uomini del cantiere, disse:

«Mascalzoni! Morirò senza sapere come viene». (A volte, nei giorni d'amore, vado da mia madre alla finestra per raccontarle, divertito, che i lavori sono più indietro di prima. Quando sono triste, invece, le dico: «Mamma, anch'io morirò senza sapere come viene»). (p. 67)

I capitoli sono sincopati, molto brevi, rapidi. Ma questo non vuol dire che non siano densi: il protagonista attraversa giorni tristi e giorni felici - che lui chiama molto dolcemente "i giorni d'amore" -  i primi quando è alle prese con la fame, la penuria, la miseria, la mancanza di denaro, i secondi quando la speranza che sua madre torni è più forte dello sconforto. In questi due dettagli - la povertà e la forza di trovare dei motivi per sopravvivere - Caputo prosegue il discorso già iniziato con Un mondo orfano: lì il ragazzo e suo padre dovevano inventare modi fantasiosi e assurdi per portare a tavola un pezzo di pane, e nonostante le difficoltà ciò che gli permetteva di andare avanti era l'amore che avevano l'uno per l'altro; qui, in Stella madre, il bambino è solo (nonostante abbia dalla sua parte alcune vicine bizzarre, come Madrecita che è sempre incinta di qualcosa, oggetti, fantasie, cose che non sono veri bambini, e Luz Bella, l'amante scorbutica delle telenovelas) e ciò che gli permette di non perdere la speranza è sì, l'amore per la madre, ma un amore messo costantemente in dubbio.

"E io ti aspetto ancora, mamma...

A volte penso di averla sempre aspettata; sono stati tanti i giorni che ho passato attaccato al vetro. Quant'è lungo il tempo! Non solo aspettavo mia madre quando andava in fabbrica. L'aspettavo anche quando ce l'avevo di fronte. Se le domandavo: «Come stai?» 0 «A cosa pensi?», lei stava zitta, o diceva semplicemente: «Alla vita». Volevo che il silenzio diventasse un'altra cosa. L'attesa diventò agonia quando mia madre cominciò a dire: «Manca solo definire la data». Aveva parlato così tanto del viaggio e per così tanti anni... Pensavo che non se ne sarebbe mai andata, o che sarebbe rimasta tutta la vita con il desiderio di partire. Ma aveva risparmiato, e pure molto, e diceva sempre più spesso: «Tu ormai sei grande e non hai bisogno di me». Una volta le dissi: «Andiamocene, allora, vengo con te» ma lei mi rispose secca: «No. Tu resti qui o vai per conto tuo da un'altra parte. Voglio fare le cose che non ho fatto». (p. 180)

Come dicevo in apertura, c'è una malia nella penna di Caputo. Non ha a che fare tanto con la tematica, ma con il suo modo di rendere i sentimenti universali: potremmo, noi lettori, non essere orfani (altra tematica cardine dell'autore) né avere rapporti conflittuali con i nostri genitori, eppure questo romanzo e il precedente hanno la capacità di trascinare in mondi dove qualsiasi lettore può trovare un appiglio, una zona grigia in cui pensare alla propria vita. Probabilmente il motivo è che lo stile di Caputo è profondamente lirico, poetico, vagamente magico, sembra prendere spunto dalle fiabe e dalle favole classiche, tant'è che in un'occasione di una presentazione lui stesso disse che Un mondo orfano era ispirato a Pinocchio e al mito di Icaro. 

La scrittura di Caputo è fatta di dettagli, ripetizioni continue, funzionali al carattere di un bambino confuso che è stato appena abbandonato dalla madre. Un romanzo musicale, creato con suoni onomatopeici, rumori, balbettamenti, ricordi che il lettore non sa se sono sogni o eventi effettivamente avvenuti in un passato lontanissimo eppure a portata di mano. Tramite questo stile, ancora una volta, Caputo costruisce una narrazione onirica, mai conclusa, in divenire

Deborah D'Addetta