Se una mattina d'estate un bambino
di Roberto Cotroneo
Neri Pozza, 2024
pp. 176
€ 15,00 (cartaceo)
€ 8,99 (ebook)
Torna in libreria trent'anni dopo la prima edizione Se una mattina d'estate un bambino di Roberto Cotroneo, nella collana Biblioteca di Neri Pozza.
A quel tempo ero un critico letterario e lavoravo all'Espresso. L'editore mi chiese di scrivere qualcosa sui libri che mi avevano formato. Di fatto un saggio sulla letteratura. Mio figlio Francesco aveva due anni, e il suo gioco preferito era provare ad arrampicarsi sulle librerie di casa, che occupavano tutte le pareti possibili. Così ho pensato che potevo scrivere una lettera per lui, in modo che potesse poi arrampicarsi meglio, raggiungendo i libri più inaccessibili.
spiega l'autore nella seconda di copertina. In realtà il nucleo vivificante di questo testo è proprio l'idea che non esistano libri inaccessibili. È vero che, come aveva ben visto Antonio Tabucchi nel commentare il testo (che lui definiva romanzo), ci vuole un narratore e non semplicemente un critico per parlare di Eliot, di Borges e di Bernhard a un bambino di due anni.
Ci vuole coraggio a riproporre immutato dopo trent'anni un testo, perché non esiste più lo stesso narratore che lo ha aveva scritto (un tempo critico letterario ora romanziere) né lo stesso destinatario (Francesco adesso è un uomo). Ma è cambiato anche il lettore che lo rilegge - come la sottoscritta - dopo trent'anni. Il coraggio è confrontarsi non solamente con i classici presentati (salire sulle spalle dei giganti) ma anche e soprattutto con ciò che si è diventati. Ma alla fine, i libri servono proprio a questo.
Ciò che solitamente si domanda a un libro ripubblicato dopo un così lungo arco di tempo è se sia ancora attuale. La mia risposta è che Se una mattina d'estate un bambino era un libro profetico trent'anni fa, per la società che già descriveva e che poi immancabilmente si è realizzata e che Roberto Cotroneo è da sempre e felicemente un autore inattuale.
Ma andiamo con ordine: il testo narra cinque temi attraverso cinque classici. L'inquietudine/L'isola del tesoro, la tenerezza/Il giovane Holden, la passione/le poesie di T.S. Eliot (e l'accostamento passione/lessico di Eliot è già un interessante azzardo), il talento/Il soccombente, e alla fine l'amore per i libri attraverso la figura di Jorge Luis Borges.
Ricordi quando ti dicevo: attento, Francesco i libri si parlano tra loro? E sono dispettosi, nascondono sempre qualcosa, e se lo passano l'un con l'altro. A te sta il compito di scoprire cosa, e dove è nascosto. Coi libri si gioca; come in un girotondo, come se fosse nascondino. I libri raccontano storie perché tu possa inventarne delle altre; e a volte mescolano storie vere e inventate: e danno a entrambe la medesima importanza. (p. 105)
Con una scrittura a tratti favolistica, leggera e affabulatrice come conviene a una lettera a un bambino, siamo invitati a un gioco antichissimo: narrare, inventare, perché tutti i libri sono in fondo come il vascello di Peter Pan. Roberto Cotroneo fa propria quell'idea che Italo Calvino suggeriva a chi stava per avventurarsi nella lettura de Il barone rampante, cioè di considerare la letteratura «una specie di Alice nel paese delle meraviglie o di Peter Pan o di Barone di Münchhausen, cioè di riconoscerne la filiazione da quei classici dell'umorismo poetico e fantastico, da quei libri scritti per gioco, che sono tradizionalmente destinati allo scaffale dei ragazzi». Tuttavia, in questo gioco - di cui non a caso Borges, o "il venerabile Jorge", giocando di citazione, è il gran Maestro - si nasconde la serietà della semiosi illimitata di Eco e della labirinto dei segni di Calvino. Se il critico letterario sapeva che «l'occhio non vede cose ma figure di cose che significano altre cose» (Il castello dei destini incrociati), il padre che scrive a Francesco non aderisce affatto al "n'y a pas de hors-texte", perché i cinque percorsi sopracitati guardano proprio al mondo, servono al processo formativo che porta un giovane a confrontarsi con il mondo. Non so se sia questa la fiducia cui si riferisce Cotroneo nella quarta di copertina:
C'è quasi un incanto in queste righe che oggi credo non sarei più capace di ripetere. Una fiducia verso l'infanzia, quell'infanzia capace di capire tutto, i grandi classici, i grandi poeti, e gli scrittori, per così dire difficili. Quell'infanzia che ci insegna ed è persino capace di guidarci. Quel mondo bambino che abbiamo perso che è assai più saggio del mondo adulto che anno dopo anno ci piace sempre meno.
Accogliamo questa fiducia nel ripercorrere un saggio scritto come un Bildungsroman. Del resto, le storie si raccontano ai bambini per spiegare loro che il male esiste, ecco perché si comincia facendo la conoscenza di John Silver de L'isola del tesoro, ma che questo male oltre che subdolo e mascherato, può anche essere banale come il conformismo e come le idee chiare che l'educazione degli adulti vuole usare per "forgiare" i giovani. L'incontro con Holden Caufield, per Cotroneo come per tanti di noi, è stata la scoperta dell'irriverenza, del piacere di dissacrare, di stonare e di essere sbagliati. Come Peter Pan, Holden crede che certe cose dovrebbero restare come sono e se rifiutarsi di crescere significa domandarsi dove vanno le anatre quando il laghetto di Central Park ghiaccia, ben venga. Significa fare domande che sfidano l'indifferenza degli altri.
Ma la crescita non passa solo per la negazione del mondo esterno, spesso il vero nemico ce lo portiamo sempre in noi e si chiama viltà. Trent'anni fa la lettura del libro di Cotroneo mi fece scoprire quella poesia terribile (più crudele di Aprile) e meravigliosa che è Il canto d'amore di J. Alfred Prufrock, che da allora non mi ha più lasciato.
Eccola l'ignavia, Francesco. Quella terribile incapacità di Prufrock a prendere qualunque decisione, a fare qualunque cosa. (p. 85)
La paura di bruciarsi con la passione, di turbare l'universo, di prendere una decisione, porta le persone a credere che tutto comunque sarebbe uguale, che fa lo stesso, che dopo tutto le cose sarebbero comunque andate così. Una delle peggiore insidie per un giovane, a cui è bene dire - come fa Cotroneo - che alla fine ne sarebbe valsa pena.
Ah no, Francesco, attento a un canto d'amore terribile. Attento all'indecisione, alla paura, al non fare perché tanto è lo stesso, perché tanto nulla cambierà, e se cambierà, e se cambierà tutto potrebbe cambiare ancora e poi ancora, in un attimo, in un secondo. Impara cosa sia la quotidianità senza senso, impara che non sempre quella nebbia gialla che strofina la sua schiena contro i vetri potrà proteggerti. (p. 91)
Il capitolo dedicato a Prufrock, come quello dedicato a Il soccombente di Bernhard ci parlano di uno degli orrori che albergano nell'animo umano: quello verso la mediocrità, quella del mondo esterno ma soprattutto quella dentro di noi. La convinzione, come faceva dire Eliot al suo anti-eroe, di non essere Amleto, né essere stati destinati a esserlo, ma solo controfigure, utili a ingrossare un corteo. Mai protagonisti. E qui Cotroneo ha scritto pagine "profetiche". In un mondo, quello in cui lui scriveva, in cui non vi era ancora Facebook, non vi erano i selfie o le stories di Instagram, già metteva in guardia il figlio verso una società in cui tutti si credono Amleto e hanno bisogno di «fare della propria vita un palcoscenico estetico e letterario» (p. 119). Un mondo che celebra la creatività, a patto che non metta in discussione le regole, una creatività cioè non eversiva, quindi non-creativa. Anche qui, la critica allo sdilinquimento della didattica e della pedagogia per progetti, creazioni, fantasia, non può che apparirci - a trent'anni di distanza - tristemente lungimirante. La creatività di un paese povero di lettori ma pieno di scrittori, perché ognuno vuole raccontare una storia (essenzialmente la propria) perché oramai
Scrivere libri è sempre di più come raccontare barzellette: divertente certo, ma di nessun'altra importanza. (p. 154)
La fantasia serve a stupire, (oggi diremmo a raccogliere followers e like), e si è persa la percezione non solo della genialità di Glenn Gould ma perfino il riconoscimento del talento (Wertheimer). Mi riferisco al romanzo di Thomas Bernhard, Il soccombente, in cui davvero la letteratura ha avuto bisogno di uscire dal testo per appoggiarsi alla realtà. E questa realtà è un personaggio esistito in carne e ossa: Glenn Gould.
Ci sono però personaggi che stanno sospesi tra realtà e romanzo, senza rinunciare a nessuna delle due identità. Non possono essere solo personaggi di romanzo: sarebbe troppo poco; però non basta loro essere realmente esistiti, e magari molto famosi. No, si completano nei due ruoli: l'uno non può più far a meno dell'altro. (p. 112)
E qui veniamo a un altro carattere "profetico" di Se una mattina d'estate un bambino: sulla narrativa di Roberto Cotroneo stesso. Qui sembra parlare del suo Chet Baker (il romanzo Chet pubblicato nel 2011), del suo George Simenon (Betty, del 2013), ma anche degli scacchisti Bobby Fischer e Robert Byrne di Per un attimo immenso ho dimenticato il mio nome; in questo gioco infinito che è la letteratura, in cui personaggi reali e immaginari si confondono e ci confondono, in un gioco di specchi - che, guarda caso è lo stesso creato da Milo Temesvar citato da Cotroneo, che citava Eco, che citava Borges - lo sguardo del critico feconda l'estetica del futuro narratore.
«Così, Francesco, tutte le cose del mondo conducono a una citazione o a un libro» scrive Cotroneo al figlio sette anni dopo la prima edizione del testo, e forse solo questo rimando infinito, questa Biblioteca di Babele, può spiegare come un libro di meno di 200 pagine riesca a essere così denso e ricco di spunti.
Un'ultima cosa: ho definito inattuale Cotroneo. Poiché abbiamo giocato con le citazioni, non può sfuggire che mi riferivo all'uso fatto prima da Friedrich Nietzsche e poi da Thomas Mann di questo aggettivo. La sua maniera di concepire e professare la letteratura è purtroppo inattuale perché rivendica un ruolo non meramente emozionale, o tanto meno dilettevole, ma fortemente gnoseologico della letteratura. E in un mondo di cartomanti «che si richiamano sempre al futuro (il "futuro della società, della civiltà della letteratura, dell'arte")» (p. 102), essere inattuale non può che apparire un titolo di merito.
Deborah Donato
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