Nel romanzo d’esordio di Shirley Jackson La strada oltre il muro appena pubblicato da Adelphi nell’ottima traduzione di Silvia Pareschi c’è già tutta l’essenza della scrittrice a venire. Uscito originariamente nel 1948 racchiude molti dei temi e degli spunti che caratterizzeranno le opere seguenti, a partire da quell’ironia di fondo che attraversa la scrittura di Jackson e che nel caso dei romanzi e dei racconti più oscuri non sempre viene notata ma che invece è uno dei tratti peculiari della sua prosa, tesa tra ironia e dramma. La strada oltre il muro si svolge lungo il corso dell’estate del 1936 e in un contesto perfettamente delineato e chiuso, quello di Pepper Street, sobborghi della cittadina immaginaria di Cabrillo, non tanto distante da San Francisco. Inizia con la fine della scuola e si concluderà al volgere di un’estate che segnerà per sempre il quartiere e le persone che lo abitano. Una comunità, ma non nel senso più nobile del termine: perché quello che Jackson abilmente racconta già in questo primo romanzo è la parte più oscura dell’America suburbana, le crepe che si allungano sulla facciata di perbenismo, i rapporti tra invidie e diffidenza, il razzismo, la chiusura all’altro. Ed è lì, in una strada tranquilla dove diremmo non accade mai nulla, che invece tutto succede, fino al dramma.
Pepper Street è una strada come tante altre nell’America degli anni Trenta: case ordinate, famiglie perbene, comunità a netta maggioranza wasp (White Anglo-Saxon Protestant), padre-madre-figli che tengono ben nascosti i propri dissidi, le proprie frustrazioni e infelicità. Un mondo ordinato, retto da regole di comportamento non scritte ma universalmente note e dove anche solo essere una donna sola e anziana è sufficiente a marchiarti (con l’appellativo di vecchia strega, naturalmente). Un materiale che nelle mani di Shirley Jackson può diventare incendiario: è evidente in questa prima opera, più frenata forse rispetto a quello che verrà dopo ma lo sguardo già puntato al cuore dei personaggi, alle storture dell’uomo, alle ombre che si allungano davanti alle staccionate perfettamente dipinte. Quella di Pepper Street è la vita di un quartiere residenziale dove niente di brutto può accadere, almeno non in pubblico: i mariti vanno al lavoro in città nella speranza di fare abbastanza soldi da poter migliorare lo status della famiglia, le mogli badano alla casa, organizzano tra loro riunioni di cucito e chiacchiere cortesi, i figli in pausa dalla scuola vivono la propria libertà. Ma è evidente che le cose sono più complesse di così, più oscure: quei mariti bevono e trovano conforto trincerati nei loro silenzi o nella vicinanza di un’estranea, le mogli sono ben attente a nascondere sotto il tappeto la polvere che rovina il quadretto della famiglia perfetta e i figli, bambini e ragazzini, sono tutt’altro che innocenti.
Il dramma esploderà verso la fine e, come di consueto nelle storie di Jackson, i confini resteranno sfumati, il mistero insoluto; ma prima di arrivare al punto di rottura ci sono già dalle primissime battute i segnali di una stortura, di un’oscurità che si nasconde dietro il perbenismo borghese di facciata. È l’ordine delle cose che viene scosso dal cambiamento, dapprima quasi impercettibile, poi sempre più evidente, dalle crepe che si allargano sempre di più, dalle malevolenze non più celate.
Una parte del muro doveva venire giù. Si doveva aprire una breccia nel confine settentrionale del mondo. Orde di barbari si sarebbero riversate in Pepper street. Il cambiamento sarebbe arrivato senza il consenso di nessuno. Di lì a dieci anni Pepper Street sarebbe stata così diversa che i suoi attuali abitanti non l’avrebbero riconosciuta. (p. 147)
Prima dell’abbattimento del muro sono già evidenti i segni della decadenza del quartiere, per certi versi specchio della decadenza dell’individuo stesso. E tutto forse inizia dalle lettere “d’amore” che un gruppo di ragazzine di Pepper Street scrive ai maschi e che alcune madri intercettano e puniscono con più convinzione di altre. È da quelle lettere che Jackson inizia a svelarci la vera natura dei ragazzini del quartiere: mai davvero innocenti, i bambini e i ragazzi delle storie di Jackson hanno già tutte le mancanze degli adulti ed è qui che poi si innesterà il perturbante. Come i loro genitori, i ragazzini di Pepper Street scelgono rapporti di convenienza, si scagliano contro il più debole, tengono a distanza e giudicano aspramente chi non si conforma, hanno scatti di rabbia e violenza. Appartengono a un limbo, non del tutto bambini, non davvero adulti, custodi di segreti e meschinità. Il cambiamento è la prima crepa che si allargherà sempre più fino al punto di rottura del dramma finale e che parte con le lettere, l’affacciarsi della pubertà, lo svelarsi del mondo degli adulti in tutta la sua complessità. Il segno tangibile è dato dall’abbattimento del muro che segnava un confine netto e solido tra Pepper Street e il resto del mondo da cui tutelarsi:
Fu la distruzione del muro ad aprire la prima crepa nella sicurezza di Pepper Street, una sicurezza così fragile che, una volta incrinata, andò in frantumi nel giro di poche settimane. (p. 149)
Pepper Street dopotutto sembra fondarsi sul binomio tenere dentro/tenere fuori: dentro c’è la comunità wasp e il malcelato razzismo che riversa su asiatici, neri, ebrei; fuori c’è il mondo che, nella concezione dei residenti, alla caduta del muro invaderà la tranquilla strada e porterà il caos, il degrado, lo svalutamento. Eppure il male è già parte della comunità, radicato nelle azioni di ogni giorno, nel pregiudizio, nell’esclusione. L’ironia pungente di Jackson si sta ancora affilando ma lo sguardo è già pienamente puntato al cuore dell’individuo e alle sue ambiguità; una narrazione ricchissima di dettagli, di voci, personaggi, dai molteplici punti di vista, una coralità che a tratti si confonde in una sorta di unicum. Di lì a qualche anno Jackson racconterà la violenza che esplode brutale in una sonnacchiosa cittadina radunata per la lotteria annuale, di ragazzine che potrebbero aver avvelenato la famiglia, di mogli che sognano di colpire a morte i mariti (e forse lo fanno davvero), di vecchie dimore da incubo; ma anche di una società chiusa – la stessa che scriverà indignata lettere infuocate al New Yorker dopo la pubblicazione de La lotteria – , del perbenismo di facciata, di un orrore che non è mai soprannaturale ma tutto dell’individuo o, ancora, della fatica di una scrittrice che in quelle due ore “rubate” alla vita domestica può finalmente essere davvero se stessa, di un’identità che il mondo fatica a riconoscerle oltre il ruolo di moglie e di madre. Tutto questo verrà di lì a poco, ma in questo esordio i segni ci sono già tutti.
Non mi soffermo sulle piccole mancanze e le debolezze di un testo che è, appunto, una prima pubblicazione ma che tuttavia non possiamo certo giudicare acerbo. C’è, si diceva, una scrittura tenuta a freno a tratti che quando però riesce a liberarsi non ha paura di affondare nelle pieghe più oscure dell’animo umano e dire ciò che non si dice:
C’era un certo piacere nella sensazione che la notte, con i suoi terrori da giungla, si fosse avvicinata alle loro case sicure e illuminate, li avesse sfiorati e se ne fosse andata, lasciando incolumi tutte le famiglie tranne una; un piacere fisico acuto, simile a un dolore, che li spingeva a guardare avidamente Mrs Desmond per poi girarsi colpevolmente dall’altra parte. (p. 205)
Eccola lì, la scrittrice che conosciamo, che mette nero su bianco i pensieri inconfessabili, tanto degli adulti quanto dei bambini. Quale effetto intrigante deve aver prodotto nei lettori suoi contemporanei la scoperta di questa nuova voce, la sua ironia feroce, la rottura delle convenzioni borghesi letterarie. E quanto profonda sarà l’influenza di Shirley Jackson su molta scrittura a venire.
Debora Lambruschini
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