Edizioni e/o, 25 settembre 2024
Sai una cosa, Murad?All’inizio, scoprire che avevo tratti simili a quelli ashkenaziti è stato solo un diversivo. Un’avventura…Finché non ho capito, quando mi hai sorpreso con le tue lettere di contrabbando dal carcere e con quei libri intellettuali, che i lineamenti sono una carta d’identità in un mondo che occulta e sfigura i miei tratti originali. Così ho inventato il mio altro nome. Inizialmente, man mano che mi addentravo in quelli che tu chiami i dettagli del colonialismo sionista, ho preso in prestito nomi diversi. A volte ero Nati, a volte Rafi o Benjamin. Finché non mi sono imbattuto nel mio nome migliore in un cappotto di pelle: Shapira, Ur Shapira. Un nome che mi accompagna come un jolly. (p. 62)
Sareste disposti a indossare l’identità del nemico che opprime la vostra terra e la vostra gente, sopportarne il peso, soffocando la vostra anima e le vostre radici, per realizzare un sogno? Il giovane Nur Mahdi al-Shahdi, figlio di un campo profughi palestinese, è fatalmente innamorato di Gerusalemme, talmente catturato dalla sua storia e dalla luce della sua bellezza, che sì, è disposto contro ogni forma di buon senso e contro i consigli dell’amico prigioniero Murad con cui ha una fitta corrispondenza clandestina, a fingersi chi non è pur di poter penetrare i segreti della città santa.
La passione per la terra era sbocciata allora, quando, nelle sue profondità, Nur aveva trovato frammenti di ceramiche, sigilli, statuette e monete rimaste sepolte per migliaia di anni. La terra lo aveva conquistato con le sue rivelazioni, lei che confida i propri segreti solo a chi sa accarezzarla con dita esperte, in un solletico gentile fatto con pazienza, calma e caparbietà fino a farla fremere e gridare confessando i suoi pensieri più intimi. (p. 19)
La terra di scavo e Gerusalemme sono rappresentate così, come delle bellissime spose irraggiate di luce e mistero che attendono l’amante appassionato che sappia tirare fuori i loro incomparabili segreti di storia e di bellezza. Pretesto narrativo e obiettivo che regge il sacrificio di convivere per qualche tempo con i nemici sionisti è l’intrigante storia di Maria Maddalena, del valore della sua figura nella vita di Gesù, che Nur ricostruisce nelle note vocali numerate e datate che vuole conservare nel telefono per l’amico Murad. Cercando di fornire un lavoro più rigoroso e una storia autentica, diversa da quella raccontata dallo scrittore americano Dan Brown nel Codice Da Vinci, Nur ha bisogno di mettere piede nella località di Megiddo dove, secondo i vangeli gnostici, era conservata
[…] la scatola della Maddalena, in cui erano conservati non solo le sue trecce e il suo profumo, ma anche il suo Vangelo segreto, fino alla venuta di Gesù per resuscitarla e farla risorgere, unto con il suo profumo e frizionato con i suoi capelli. (pp. 41-42)
Nura, madre del protagonista. è morta ventenne, poco dopo averlo dato alla luce, e gli ha trasmesso dei caratteri poco riconducibili ai tratti somatici arabi: carnagione chiara e delicata, capelli biondi, occhi azzurri, un’avvenenza tipica degli ebrei, in particolare degli ashkenaziti, gruppo giudaico tendenzialmente sionista. Questo patrimonio genetico, che in passato lo ha reso vittima delle beffe dei compagni di scuola da ragazzino, ora si trasforma in un asso nella manica che lui sfrutta qualche anno più tardi per passare inosservato in Israele, per studiare e raccogliere tutte le notizie utili a ricostruire la storia di Maria Maddalena, soggetto del suo romanzo. Le carte che la natura gli ha donato, già vincenti per lo scopo che si è prefisso, vengono però affiancate da un jolly: l’occasione di una maschera che ha il colore del cielo, cioè una carta di identità azzurra, israeliana, che Nur trova casualmente nella tasca di un cappotto in pelle comprato in un negozio di abiti di seconda mano. E allora Nur diventa Ur, il palestinese diventa un ebreo.
Una maschera color del cielo è un libro eccezionale, di cui ho apprezzato diverse caratteristiche: innanzitutto sottolineo che l’eleganza e la delicatezza della scrittura araba sono ormai una certezza per me e le ho trovate anche in questo libro, grazie al lavoro di Barbara Teresi che lo ha tradotto in italiano e ha curato le note e il Glossario finale. La scrittura è notevole anche per il tessuto narrativo che Khandaqji costruisce con le parole, di cui è maestro: la narrazione procede con rapidi scambi di punti di vista, dalla narrazione in terza persona, si passa a quella in prima persona quando Nur prende la parola e racconta la storia salvando note vocali per l’amico nella memoria del cellulare. Questo espediente rende la narrazione dinamica e fluida; inoltre prima del passaggio di focalizzazione vi è un avviso da parte del narratore esterno alla storia, per cui non vi sono inciampi alla scorrevolezza del racconto.
La storia del “doppio”, di Nur-Ur, di cui leggiamo dialoghi a volte esilaranti, in quanto le due identità, quella palestinese e quella sionista litigano nella mente e nel cuore del giovane ricercatore, punzecchiandosi a vicenda, alleggeriscono la bollente questione delle terre contese, dell’occupazione israeliana, dei massacri come Sabra, Shatila, Jenin, al-Shati, che vengono menzionati diverse volte lungo le pagine.
Una maschera colore del cielo ti prende e non te ne accorgi, non è il tipico libro le cui storie ti rapiscono da subito e condizionano il giudizio dalle prime battute, ma è un libro che ti lascia in alcuni passaggi con ombre di perplessità dissolte poi a chiusura della lettura, quando certe scelte narrative trovano un perché. È in quel momento che il lettore si accorge di essere davanti a libro notevole. In questo romanzo lo scrittore porta non solo la sua visione di figlio della Nakba, dell’espropriazione e delle vessazioni, ma si sforza anche di tradurre in alcuni passaggi, attraverso le parole di Ayala, sua compagna di scavo, anche lo stato d’animo di chi invece è l’oppressore, quel popolo che ha fatto della parola Olocausto e antisemitismo il magico mantra, l’ assioma sacro del sionismo (p. 188). Una maschera colore del cielo ha vinto il Premio internazionale di Narrativa Araba quest’anno, nonostante sia stato scritto nel 2021, nelle carceri israeliane in cui Bassem Khandaqji è detenuto dal 2004, dall’età di ventun anni.
Tra le righe del romanzo ho compreso quanto, in quelle terre martoriate, i popoli rivali si conoscano bene, si studino a vicenda, si osservino: il sionista Ur, la maschera colore del cielo che copre il viso del giovane palestinese Nur, è più arrogante e prepotente dell’anima di Nur, ma dialogano, l’una non riesce a fare a meno dell’altra, ogni azione ogni pensiero è oggetto di commento da entrambe le voci che gli urlano nella testa. Ma si possono avere due piedi nella stessa scarpa a lungo andare? La storia di Nur, figlio dei vicoli di Ramallah, dove un nome vale l’altro, perché la condizione di rifugiato è totalizzante e rende inutile le differenze, potrebbe essere la metafora di una domanda di respiro di tutt’altra ampiezza: è possibile la soluzione di due popoli nello stesso Stato?
Pensando a Gerusalemme, Nur si era sempre chiesto: se questa terra è veramente sacra, perché è così ferocemente assetata di sangue? (p. 76)
Marianna Inserra