Gregorio Bajocchi, o per meglio dire, il conte Bajocchi sembra avere tutto dalla vita: una professione di successo, una bella casa a Milano, dove ci sta il meno possibile, abiti di lusso, moto e macchine fiammanti, una vita frenetica ma di grandi soddisfazioni. Certo, alla soglia della cinquantina, non ha ancora trovato l'anima gemella, ma non sono certo le donne a mancargli. A dire il vero, in gioventù, gli sembrava anche di averla trovata la compagna giusta, un colpo di fulmine gli aveva fatto sposare una bellissima ragazza tedesca, Emma. Dal loro breve matrimonio, era anche nato un figlio, Johann, con il quale però Gregorio ora non ha più alcun rapporto. Il matrimonio è finito male, Emma se n'è andata portandosi via il bimbo, uscendo di fatto dalla sua vita.
Gregorio sopra ogni cosa possiede la Conventina, il suo gioiello più prezioso, la ragione stessa della sua esistenza: una tenuta agricola, di oltre mille ettari, nell'Oltrepò Pavese, fatta di campi, vigneti, coltivazioni, boschi, abitazioni coloniche, la sua accogliente casa padronale. Una realtà fatta, soprattutto di persone, quelle che l'hanno accompagnato per tutta la sua vita e l'hanno cresciuto, formato, abituato ai valori concreti dell'esistenza. Gregorio ci è nato alla Conventina e qui ci torna il più possibile, ogni qual volta il lavoro gli concede un attimo di tregua. Qui c'erano i suoi genitori, che lo lasciarono solo troppo presto, qui c'è il suo amico fraterno Massino, compagno di giochi nell'infanzia e quasi fratello, dopo che Gregorio, rimasto orfano a 15 anni, fu accolto in famiglia, proprio dai genitori di Massino. Una richiesta esplicita da parte del conte Lorenzo Bajocchi, padre di Gregorio, prima di tirarsi un colpo di fucile al ciabòt della Lüna vegia, un casotto da cacciatore sulla collina. Adesso è Massino, con la sua laurea in Scienze agrarie e la sua passione per l'enologia e per le sementi, a occuparsi della gestione di tutta la tenuta.
La Conventina è un mondo a sé, quasi un veliero che fluttua in un mare di nebbia, in una distesa di frumento o di viti rosseggianti, è una comunità che basta a se stessa, ma aperta alla realtà circostante. Qui Gregorio si sente perfettamente al suo posto nel mondo, è un tutt'uno con la terra, con i frutti, con il cielo e soprattutto con la sua comunità di abitanti che sembra vivere immutabile nel flusso del tempo. Sembra che mai nulla cambi alla Conventina, le famiglie sono sempre lì a lavorare, con quei gesti eterni della campagna che seguono la rotazione delle stagioni, delle ore e dei giorni. Con quel sapere che sembra innato. Proprio come le piante che sanno quando far sbocciare le prime gemme o quando spogliarsi delle ultime foglie. È lui, Gregorio a muoversi, a spostarsi freneticamente, ad andare avanti e indietro, a Milano, a Roma, nel mondo, ovunque lo porti il suo lavoro di avvocato di grido e uomo di finanza, è lui a tuffarsi nella frenesia delle giornate, ma poi l'agognato ritorno alla Conventina lo riporta sempre al tempo lento della campagna, alle torte di Battistina, ai calici di vino buono da sorseggiare con Massino, ai gesti antichi dei contadini, agli aratri che girano le zolle. E poi alla Conventina c'è Cora, quella ragazza strana che abitava da ragazza in una casa colonica, di cui Gregorio, forse senza mai saperlo veramente, era invaghito, forse incuriosito. Appena finite le scuole Cora era sparita per decenni. Ma adesso è tornata, con una figlia indiana adottata, Arya, e una lunga vita alle spalle, tutta da scoprire.
Ma tutto questo sta per finire, il mondo incantato della Conventina sta per andare in mille pezzi. Gregorio ha ricevuto un'offerta di quelle che non si possono rifiutare: 100 milioni di euro da parte di un gruppo di investitori nei settori del lusso che ha messo gli occhi sulla tenuta con l'obiettivo di trasformarla in un resort per paperoni e magnati vari. Impossibile dire di no a una cifra del genere, è roba da far girare la testa. Per questo il lettore conosce Gregorio in un momento di apprensione e preoccupazione: rifiutare non si può, e poi ha già dato una mezza parola, ma poi le persone della Conventina che fine faranno?
Questo il mood del nuovo romanzo di Franco Faggiani, Basta un filo di vento (Fazi Editore), che trova un'ambientazione molto diversa da quelle a cui ci ha abituato lo scrittore milanese, amante delle montagne che rivivono tra le sue pagine. Qui siamo in pianura, soltanto un poco ravvivata dalle colline tonde e basse dell'Oltrepò Pavese. Ma anche in questo libro, come negli altri, la natura è assoluta protagonista: qui sono le foglie gialle e rosse dei vigneti, i campi a perdita d'occhio, le nebbie, i cieli d'estate, le zolle, la terra che ha un potere magnetico irresistibile. Uomo e terra si assomigliano in certe zone e per certi mestieri e in queste righe c'è tutto il potere che la manciata di terra su cui si sono fatti i primi passi esercita.
È questo, anche e soprattutto, un romanzo di comunità, intesa come l'insieme delle persone che condividono un pezzo di vita e hanno lo stesso obiettivo, che, in questo caso, è il benessere collettivo della Conventina. Proprio come un tempo nei villaggi rurali si viveva insieme, la stessa cosa succede ancora, ai giorni nostri, nella tenuta dei conti Bajocchi, amorevolmente preservata da chi vi lavora, come se fosse cosa propria. Nei dialoghi e nei sentimenti il romanzo diventa un racconto corale. Il protagonista è sì Gregorio, ma nondimeno gli altri uomini e le altre donne che entrano ed escono dalle righe formano il tessuto sociale e narrativo che si sviluppa alla Conventina. I protagonisti sono i genitori di Massino, Adelchi e Battistina Zanardi, sono Pietro e Augusta Manera, i genitori di Cora, è la signorina Bisio, contabile vecchio stile che non sgarra un conto della tenuta, sono Rocco, Contardo e Angiola, sono le sorelle Basile, è il medico che, pure in pensione, sale alla Conventina per visitare chi lo chiama e non disdegna un buon bianco e un piatto fumante.
Attorniato da tutti i suoi conterranei, Gregorio troverà l'amore, riscoprirà il frutto prezioso dell'amicizia, sperimenterà il piacere del perdono e la necessità della compassione in una girandola di buoni sentimenti che formano la spina dorsale del vivere comune. Tutto bello, forse fin troppo. Nel romanzo i buoni moti dell'animo risultano, a mio parere, un po' troppo raccontati ed esibiti. Il rischio è quello di cadere in una lunga scia zuccherina di buone azioni, buoni pensieri e buoni impulsi che svela uno sguardo forse troppo idilliaco sulla campagna e sulle persone che la vivono. Quasi che solo lontano dalle città i legami tra le persone possano essere improntati alla sincerità e alla condivisione. Da accanita lettrice dei romanzi di Faggiani, che ho sempre trovato delicati e profondi al tempo stesso, devo dire che, a mio parere, questa prova narrativa non arriva al livello di altre dell'autore, una su tutte La manutenzione dei sensi. Ho trovato i dialoghi troppo costruiti, con quel che di artificioso che li rende poco naturali, non perfettamente verosimili. Scritti bene, indubbiamente, ma con un linguaggio molto più scritto che parlato. Di bellezza in bellezza, di bontà in bontà, di sorriso in sorriso si arriva dritti alla conclusione che non si può certo definire inaspettata. Con un "e tutti vissero felici e contenti" che riporta a un clima favolistico un pochino troppo accentuato. È vero che l'autore stesso ha sempre affermato di voler scrivere libri sereni, che regalino momenti di benessere e positività (obiettivo sempre centrato), ma forse in questa occasione un poco più di sale avrebbe dato più sapore.
Sabrina Miglio
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