I miei giorni a Parigi
di Banine
Neri Pozza, novembre 2024
Traduzione di Sonia Folin
€ 16 (cartaceo)
Sognatori del mondo intero, mi rivolgo in particolare a voi, voi che dei sogni conoscete virtù e veleni. Le virtù: sono il nostro oppio nel grigiore della vita di tutti i giorni, il rifugio che ci ripara dai dettami e dai sovrani; il nostro granito sulle sabbie mobili del mondo; la nostra focaccia quotidiana quand'anche venisse a mancare il pane. I veleni: se per miracolo i sogni si avverano, ecco quel maledetto «Tutto qui?» Quando l'impura realtà prende vita, sbiadisce quella perfezione che esiste solo nell'immaginazione. E la delusione ci avvelena: «Tutto qui?»... (p. 17)
Jours parisiens, per la prima volta uscito per l'editore Julliard nel 1947 e qui in una nuovissima edizione per Neri Pozza, è un romanzo di formazione/memoir di un'autrice che, personalmente, non conoscevo. Banine, pseudonimo di Umm el-Banine Assadoulaeff, nata a Baku, la capitale dell'Azerbaigian, fa precedere questo libro da un altro, intitolato I miei giorni nel Caucaso, in cui racconta la sua infanzia ricca, lussuosa, sfarzosa in un paese che era sul punto di crollare ma nessuno lo sapeva ancora.
Già, perché Banine nasce in una delle famiglie più ricche dell'Azerbaigian, figlia di figli di petrolieri, politici, persone influenti, circondata da paesaggi splendenti e un esercito di parenti chiassosi e invadenti. I miei giorni a Parigi la vedono ormai giovane donna, in fuga da Baku e dalla Turchia, dove ha lasciato un marito che detesta, marito che ha dovuto sposare per far piacere al padre (e perché, sposandosi, lo avrebbe tirato fuori dalla prigione).
L'indomani riprendevo le mie funzioni di ragazza perbene: servivo tè e pasticcini alle amiche di Amina, ascoltavo distrattamente o non ascoltavo affatto l'eterno chiacchiericcio e continuavo a sognare sotto un'apparenza vigile. Mi annoiavo a morte e mi chiedevo per quanto tempo ancora avrei condotto quella vita sospesa; per quanto tempo sarei rimasta in quello stato ibrido di ragazza nubile ma sposata; quale miracolo mi avrebbe salvata dal solco in cui sprofondavo senza benefici per nessuno? (p. 71)
Banine, come in un sogno che si avvera, si tuffa nella vita della Parigi degli anni ruggenti, i celebri anni '20. Quale periodo migliore per vivere la propria vita da ragazza giovane e bella? Banine lo sa e fa di tutto per approfittarne, fin quando la famiglia che ritrova nella capitale francese (matrigna, padre e le sorelle) capisce che la ricchezza si sta piano piano esaurendo e che prima o poi tutti loro dovranno mettersi a lavorare. Ma che fare? Non hanno né arte né parte, abituati com'erano ai lussi e alla servitù. Banine, grazie all'astuta matrigna Amina, diventa modella in una famosa casa di moda parigina. Molto divertente lo spaccato storico che ci racconta l'autrice e narratrice: le chiacchiere frivole, l'ingiustizia di doversi piegare al lavoro davanti a ricchissime clienti, l'insofferenza per la paga bassa, il dover vivere in una mansarda spoglia e povera. I primi periodi di Banine a Parigi non sono sfarzosi, ma ricordiamo che sta vivendo il suo sogno e dunque è felice lo stesso.
Tutto procede tra alti e bassi, lasciandoci immergere in un'atmosfera meravigliosa (e da questo punto di vista il memoir rende onore a quegli anni, sia a livello narrativo - quindi di fiction - sia a livello storico): poi però, nella vita di Banine e della sua famiglia, irrompe nel vero senso della parola Gulnar, la cugina. Ora, tocca fare una precisazione: quando Banine intitola il libro I miei giorni a Parigi commette un errore. Avrebbe dovuto chiamarlo I giorni di Gulnar a Parigi, perché da suo memoir il testo diventa il racconto della vita e delle avventure straordinarie della cugina.
Volontariamente o meno, Banine si pone in secondo piano, sia in senso figurato - preferendo raccontare ciò che accade a Gulnar - sia a livello emotivo: la cugina è un tornado, è irresistibile, bella, ricca, affascinante, intelligente, gli uomini cadono ai suoi piedi e per di più, come se tutto ciò non bastasse, è sfacciatamente fortunata. Tutto quello che Banine non è. Nasce così un'insofferenza profonda in lei: ama la cugina per la sua generosità, per il suo carattere allegro, ma al tempo stesso la odia e la invidia perché ha tutto quello che si può desiderare nella vita. Soldi, bellezza, amore, ammirazione. Gulnar non lascia niente per nessuno. Da quando fa la sua comparsa fino alla fine, Banine racconterà la sua vita insieme alla cugina oscillando tra la morte nel cuore e la voglia di amare, di essere amata, di provare solo un pizzico della felicità che sembra inondare Gulnar.
Ancora una volta Gulnar si vedeva baciata dalla fortuna che aveva messo sul suo accidentato cammino l'uomo di cui a sua insaputa aveva più bisogno, quello che avrebbe levigato un diamante grezzo per farne brillare ogni sfaccettatura. Ero consumata dalla gelosia. Sapevo già che grazie a Jérôme lei sarebbe diventata ogni giorno più intelligente, più affascinante, più conturbante. E che, già desideratissima, lo sarebbe stata ancor di più e da uomini sempre più difficili da conquistare. In sua presenza non avrei mai potuto sperare di piacere. Quel sentimento di inferiorità spegneva tutto ciò che restava della mia povera brace, al suo fianco ero Cenerentola di nome e di fatto, nel senso più etimologico: io ero la cenere, Gulnar il fuoco. Attirava anche gli uomini che non la desideravano in quanto donna, come dimostrava l'atteggiamento di Jérôme, il quale manifestava indubbiamente una certa amicizia nei miei confronti, ma provava per Gulnar un fervore particolare, un desiderio di proteggerla, di perfezionarla. Lei era la sua Galatea, lui il suo Pigmalione [...] (p. 166)
Tra un'avventura e l'altra, che Banine vivrà grazie alla cugina, ha il tempo di istruirci su fatti storici e avvenimenti importanti che la riguardano da vicino: ad esempio, dedica un lungo capitolo alla storia dell'emigrazione bianca nata dopo la Rivoluzione d'Ottobre, raccontandoci l'esodo di tutti i personaggi storici più illustri che hanno dovuto lasciare la Russia a causa delle difficoltà e che si sono miracolosamente ricongiunti a Parigi.
Ci racconterà anche come conoscerà personaggi che diventeranno famosi poi, come Teffi o Modigliani. Insomma, tutto sommato Banine non se la passava poi così male, grazie alla protezione e ai soldi di Gulnar, a sua volta protetta da quello che oggi chiameremo daddy, e che all'epoca era un uomo molto molto ricco che passava denaro in quantità ingenti per il mantenimento di una bellissima donna come lo era lei. In cambio di? Beh, Gulnar è la classica femme fatale, una mantide religiosa. Vuole solo più lusso, più soldi, più sfarzo. Nonostante ciò, non è un personaggio negativo, anzi, tutto l'opposto: affascina il lettore con il suo carattere esplosivo, ammalia, e questo particolare è curioso perché mi domando quanto sia stato voluto da parte di Banine sortire un tale effetto. La amava e la odiava, e la descrive così.
Ed ecco che tornavo a sentirmi spinta verso lo sfondo della scena, verso quel ruolo di secondo piano in cui deperivo come in una fossa. E ovviamente la mia allegria si afflosciò come si afflosciano le vele gonfiate dal vento della speranza. E di colpo, nuovamente affranta, privata anche di quel sole che brillava nel cielo, tornata la Cenerentola che nessuna fata sarebbe venuta a vestire di splendore, mi chiedevo a cosa servivano la mia gioventù, la mia eleganza di modella e soprattutto la mia libertà finalmente conquistata. (p. 218)
Molto divertenti e commoventi anche le pagine in cui Banine, costretta da Gulnar, si lega a Grandot, un medico di campagna che le farà da amante. Non è opportuno per una giovane donna restare a Parigi senza amanti, così si piega a un rapporto che - anche in questo caso - la attrae e la repelle.
Si susseguono diverse avventure, tutte di Gulnar, che hanno dello straordinario. Mi chiedo anche in questo caso quanto ci sia di vero e quanto di romanzesco. Come ho detto, dalla comparsa della cugina, Banine e la famiglia passano in secondo piano: tutta l'attenzione sarà per lei, per la sua educazione, i suoi tentativi ci accalappiare ricconi nobili e vedovi, per i suoi vestiti, le sue feste, le sue folies.
Dapprima, leggendo le prime pagine, la scrittura di Banine mi sembrava fastidiosamente frivola. Poi, andando avanti, ho contestualizzato: una ragazza giovane, sposata a forza, che scappa dalla sua terra natia e finisce a Parigi, la città dei sogni. La scrittura non è frivola, ma setosa. Non si legge, si beve. Scorre così rapida che, nonostante il libro abbia quasi trecento pagine, non si fa fatica a finirlo in un giorno. Una di quelle scritture da cui non vorrei mai separarti perché è familiare, accogliente, senza brutte sorprese. Un po' come Banine stessa, o almeno l'immagine che di lei ci fornisce.
Ne consiglio la lettura a chi ha particolarmente amato Colazione da Tiffany di Capote. Consiglio anche di recuperare il testo precedente, I miei giorni nel Caucaso, di cui questo libro sembra un sequel.
Deborah D'Addetta
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