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Un esordio che dà voce a storie di fragilità e di forza femminile, di cosa vuol dire essere donna e madre nel pàramo colombiano: "Donne della nebbia" di Laura Acero

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Donne della nebbia
di Laura Acero
Ventanas, ottobre 2024

Traduzione di Serena Bianchi

pp. 140
16,00 (cartaceo)
8,99 (ebook)


Laura Acero nasce a Bogotà nel 1990 e con Donne della nebbia esordisce nell’universo del romanzo. La sua biografia include già la realizzazione di svariati laboratori come promotrice culturale e la pubblicazione di testi come Viajes de campo y ciudad e La lectura en Colombia: formas de estudiarla. Fare questa premessa è doveroso per dare idea degli studi e del sostrato culturale dell’autrice, che sono fondamentali anche per capire l’anima di questa breve opera prima.

La protagonista di Donne della nebbia è infatti una giovane donna che dalla capitale colombiana viaggia fino al pàramo di Sumapaz per guidare un laboratorio di scrittura insieme a un gruppo di donne contadine, la cui vita è immersa nel paesaggio gelido e ostico, ma al contempo affascinante e misterioso, del pàramo più grande al mondo, situato sull’imponente Cordigliera delle Ande, un ecosistema montano, brullo e roccioso in cui abitare è lottare.

La protagonista lascia la città, il marito e il bambino di pochi mesi, per andare incontro a una realtà del tutto estranea al suo mondo e in cui estranea lei stessa si sente. Avrà modo, nell’osservazione e nel confronto con le donne della campagna, di capire il loro sguardo sulla vita, di scontrarsi con il loro linguaggio, difficile da decifrare non per diversità linguistica ma in quanto lingua plasmata dai sacrifici, dalla durezza della vita nel pàramo, e soprattutto dalle lugubri storie dei figli sacrificati a una lunga guerra civile. Il legame tra le donne si ammorbidisce man mano che il romanzo si snoda. Le parole dell’autrice incantano nel raccontare le varie dimensioni della femminilità, anzi, della donnità, che i vari personaggi femminili comprendono, ma non del tutto riescono a condividere né genuinamente a empatizzare con esse, ostacolate da differenze culturali e sociali che nascono da lontano. Così accade ad Adriana, insegnante anche lei come la protagonista e fuggita dalla città, dal marito e dal figlio, legata adesso a un uomo del luogo, ma solo in apparenza integrata nella vita del pàramo:
Un giorno non aprì bocca né prima né durante né dopo; iniziò a cercarmi senza dire una parola e si vedeva nel suo corpo, nei gesti, nella forza con cui mi afferrava, che pensava che il mio piacere fosse perché ero un po’ puttana […] Di questo non posso parlare con nessuno. Neanche quando siamo tra donne. O sarà che, per quanto mi abbiano accettato e per quanto, dopo cinque anni, io mi senta parte di loro, resto ancora la maestra, e non si fidano del tutto (p. 37).
Il racconto di cosa vuol dire essere donna e madre, della complessa doppia identità che ne deriva, Acero riesce a renderlo immediatamente esplicabile e senza nodi, dissipando quella nebbia che è metafora – oltre che elemento naturalistico – dei pudori delle donne nel manifestare il proprio dolore, nel dare voce al proprio vissuto. La protagonista, che per tutto il romanzo non ha nome, diventa l’emblema di tutte le donne del gruppo, delle lettere e delle parole che tira loro fuori, grazie al laboratorio di scrittura e alla fiducia che riesce a esprimere, e che Acero riporta nel testo per farcele conoscere:
Avere tredici anni e conoscere il silenzio del pàramo. Tredici anni e una figlia in arrivo. Partorire in mezzo ai monti, in una grotta che rivedrai solo il giorno in cui, con gli altri tuoi figli, correrai a rifugiarti lì per scappare dalle bombe. Capire come si fa a rimanere anche quando la violenza flagella la terra dove hai creato una famiglia e ormai non resta più niente e nessuno per cui vivere (p. 24).
Specularmente alla protagonista, che si lascia sedurre dalla prospettiva di abbandonarsi nella culla del pàramo, dove trova un calore imprevisto nonostante la fredda terra montana, Adriana fa un percorso inverso: dopo aver abbandonato il figlio e il marito per rifugiarsi a Sumapaz, sembra tornare sui propri passi, con una doppia fuga e lasciando al laboratorio la sua sofferta testimonianza:
L’amore qui è così dissimulato. Una promessa che mi ero fatta: resistere quassù, ma come, con questa solitudine così feroce? Sono bastati tre sguardi e già sapevo che con Rubén avrei potuto farmi una vita […] Un giorno disse che mi amava così com’ero, per la mia intelligenza, […] sapevo già che avrebbe voluto tenermi in casa come una principessa; […] Da una parte spinto dal desiderio, dall’altro lo attira l’idea che io sia come le altre e gli dia una famiglia. Ha cominciato a infastidirsi quando gli chiedevo di fare sesso, quando sperimentavo a letto. […] Mi voleva immobile […] come una mucca tra i fili elettrici (pp. 36-37).
Donne della nebbia è un romanzo che della delicatezza ha poco: le violenze, il ricordo inesprimibile dei lutti per la guerra, delle perdite e degli addii, per rifugiarsi in un territorio duro e splendido che è stato la salvezza per tanti colombiani; ma anche il dolore della maternità, di un seno duro perché pieno di latte che la protagonista, lontana dal figlio che quel latte dovrebbe nutrire, è costretta a spremere, diventando simbolo di qualcosa che anela a svuotarsi, a decomprimersi, a liberarsi.
Soltanto se mio figlio scomparisse sentirei di restare senza un motivo […] mai e poi mai abbandonerei mio figlio, che è carne creata da me e continua a nutrirsi di me, ma non è forse anche questo un ruolo che mi è stato imposto? Non mi si venga a dire che essere madre è una benedizione quando ovunque, eccetto in questo laboratorio, con queste donne che sono della terra e capiscono, sono stata bistrattata solo per il fatto di esserlo. […] Non mi si venga a dire che avere un figlio è bello e crescerlo è facile, perché in fondo è per questo che sono venuta al mondo. E quando infine mi consolarono perché non mi restava abbastanza tempo per i miei successi personali (pp. 107-109).
Eppure, è un romanzo da leggere col tocco delicato di chi ha tra le mani tante storie di fragilità riunite insieme, intessute in un ecosistema che l’autrice tiene molto a descrivere e a farci conoscere, quello prezioso e non comune di un pàramo che nel romanzo emerge come elemento cardine e protagonista, come metafora di quella dicotomia che è insita sia nell’essere donna che nell’essere madre: sacrificio e splendore.

Federica Cracchiolo