Dickensiano è l’etichetta che ricorre in riferimento al romanzo di Andrew O’Hagan, Caledonian Road, in Italia pubblicato da Bompiani nella traduzione di Marco Drago. Etichetta che si lega a vari aspetti: il numero dei personaggi – tanto che all’inizio l’autore stila una lista completa – e le vicissitudini che attraversano, l’ambientazione urbana nella Londra contemporanea all’autore, le descrizioni accurate e, soprattutto, la profonda attenzione verso la rappresentazione della scala sociale. Più volte finalista al Booker Prize, membro della Royal Society of Literature e collaboratore della London Review of Books, O’Hagan è senza dubbio un abile narratore e una penna raffinata. Caledonian Road è un progetto ambizioso, ritratto di una società che dopo la pandemia e la Brexit fatica a riconoscersi, di cui l’autore indaga gli aspetti più controversi, scavando al cuore nero dei personaggi, tra ambizioni, meschinità, prevaricazioni. L’impianto tradizionale e la salda tenuta dell’autore tuttavia non riescono a mio avviso a celare l’artificiosità di fondo che impregna ogni dialogo e una storia che pare compiacersi troppo di sé stessa. Siamo ben lontani, a mio avviso, dalla qualità letteraria di Effimeri, il romanzo con cui O'Hagan mi aveva ammaliata (e di cui trovate qui la recensione di Gloria Ghioni).
Di recente mi è capitato di rileggere Al faro di Virginia Woolf e di riflettere su come sia senza dubbio un testo complesso in cui non è facile entrare, soprattutto per lo stile di scrittura: i continui cambi di punto di vista, la scarsità di dialoghi e una narrazione che più del plot è centrata sulla psicologia dei personaggi e il flusso dei loro pensieri; un testo, quindi, in cui avventurarsi facendo appello alla dovuta concentrazione, lo sforzo ripagato da pagine di rara bellezza. Quella di Woolf è una scrittura colta che sfida il lettore ma non lo sminuisce mai né si trincera dietro snobismi letterari o una distanza intellettuale con cui giocare. Perché sto dicendo questo? Perché, a differenza del testo di Woolf e pure delle opere di Dickens cui la critica lo avvicina, il romanzo di O’Hagan manca invece in questo intento, isolandosi in una bolla di auto-compiacimento e una sovrabbondanza che minano le pure ottime intenzioni del testo. È soprattutto quell’artificiosità cui accennavo prima ad appesantire un romanzo dagli spunti notevolmente interessanti, tra cui il discorso sul mondo intellettuale e accademico del protagonista, Campbell Flynn:
Alto e affilato a cinquantadue anni, Campbell Flynn era una polveriera dentro un abito di Savile Row, un uomo convinto che l’infanzia fosse così remota alle sue spalle da non rappresentare più alcuna minaccia. (incipit, p. 15)
Un senso costante di minaccia, invece, attraversa la narrazione e la vita di Flynn, custode di «segreti e guai», in bilico tra le proprie radici e la vita che ha conquistato. I soldi e lo status sociale che ne derivano sono a mio avviso il perno più interessante di questo romanzo, da cui si diramano molteplici spunti. La vita di Flynn è tesa tra il benessere conquistato (anche attraverso il felice matrimonio con l’erede di una ricca famiglia) e il terrore di perdere ogni cosa: «le preoccupazioni che portava con sé quasi costantemente erano il denaro e il fatto di non essere benestante come avrebbe dovuto» (p. 16). C’è in quel «dovuto» tutto il senso del personaggio, il desiderio di appartenere a una determinata cerchia sociale, lo status conquistato, lo stile di vita al di sopra delle effettive possibilità economiche. Ecco, dunque, che all’accademico e scrittore di successo viene un’idea: scrivere come ghost writer un manuale di auto aiuto sicuro bestseller, Perché gli uomini piangono in macchina, il cui volto pubblico sarà quello di un giovane attore in forte ascesa, con il quale stringe un accordo fuori dal comune e sempre più pericoloso.
Attorno a Flynn, intanto, il mondo brucia: la corruzione, i segreti e i traffici loschi non possono più celarsi dietro la facciata di perbenismo borghese e tutto sembra andare in pezzi, a partire dalle persone a lui più vicine. Quello di O’Hagan è il ritratto impietoso di una società sempre più corrotta, violenta, brutale: una decadenza che non è quella evidente delle strade ma una più sottile e pericolosa, di criminali con i vestiti su misura e una facciata di rispettabilità, quella del Dark Net, quella della politica e del privilegio. Un mondo dentro il quale Flynn è accompagnato da uno degli studenti più brillanti – e altrettanto ambigui – del suo corso, Milo Mangasha. Una guida che a sua volta nasconde segreti e un tornaconto: per Milo il legame con Flynn è infatti l’occasione per combattere la sua battaglia contro il vecchio ordine, da lui rappresentato, e sovvertire lo stato attuale delle cose. Flynn è per Milo emblema di quella corruzione che sta devastando il Paese, ma nel rapporto tra i due si innesca anche un discorso più generale sullo scontro generazionale o, quantomeno, su una certa distanza: di visione, morale, aspirazioni. Una distanza che è ben esemplificata anche nel rapporto tra Flynn e i figli, protagonisti di un mondo a lui completamente estraneo, con codici e un sistema di valori che non comprende. Anche nel rapporto con i figli entra in gioco il discorso sul denaro, centro nevralgico di tutta questa storia, l’ambiguità del protagonista e il senso di inadeguatezza perenne.
Che i suoi figli avessero il loro mondo e del denaro che non proveniva da lui gli andava bene. O forse l’ultima parte gli risultava difficile. A differenza di lui erano partiti già avvantaggiati, con una bella spinta, e adesso erano molto più avanti del padre. In quei momenti, i momenti in cui si parlava di soldi, tendeva a pensare al cognato di sua moglie, un riccone, una persona orribile. (p. 23)
Torno ancora sul discorso di classe, tra le cose più interessanti nel romanzo e un discorso che pare nuovamente centrale nella narrativa di area anglosassone: ciò che colpisce è la spietata onestà con cui l'autore tratteggia un mondo dove «la mobilità sociale è una fantasia sostenuta da gente ricca e colpevole» (p. 58) e che alla luce della realtà che si sta delineando in modo sempre più chiaro mi pare farsi particolarmente preoccupante. A O'Hagan va dunque il merito di riportare in modo tanto efficace la materia sociale nel discorso letterario e fuori da esso, mediante un ritratto impietoso e onesto della realtà.
Attorno a Flynn, tra le strade, nelle sale di ristoranti stellati, nei quartieri della politica e della finanza, una miriade di personaggi, storie, decadenza, a comporre il mosaico di una società in cui nulla è più innocente e dove i confini tra bene e male, ciò che è giusto e ciò che è sbagliato sembrano ormai non esistere più. Si resta invischiati tra le pagine di un romanzo che ammalia per la forza immaginifica dell’autore e la capacità affabulatoria, ma il ritratto spietato di un mondo che non fatichiamo a riconoscere non basta ad andare oltre il feuilleton, per cui non riesco a riconoscere nel testo le lodi che più o meno unanime la critica internazionale pare accordare al romanzo di O’Hagan, pur apprezzandone gli intenti, le commistioni di genere, le riflessioni che apre. È sempre quello il punto debole, l’artificio di cui dicevo, che finisce con il corrompere tutto il resto. Non aiuta nemmeno la sovrabbondanza di tematiche e spunti in una storia che pare dover comprendere ogni cosa, in una smania che soffoca molte narrazioni contemporanee. È un testo di sicuro impatto e per sua natura ben si presta alla trasposizione in serie tv già in atto, ma non scomoderei ancora il signor Dickens. Piuttosto, nel setting londinese, nel desiderio di raccontare le complessità del contemporaneo, i conflitti di classe, il viaggio urbano, ho ripensato a un volume di Zadie Smith, Grand Union, che però anche in questo caso mi pare funzionare meglio del romanzo di O’Hagan per lo sguardo lucido sulle cose, la pregnanza del reale. Restano, importanti, le suggestioni derivanti dalla lettura di Caledonian Road, gli spunti di riflessione su una realtà che è anche la nostra. E questo, senza dubbio, un valore importante.
Debora Lambruschini
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