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"Un amore così forte da star male": nuovamente al cuore di una famiglia in "Così com'è sempre stato" di Claire Lombardo

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Così com’è sempre stato
di Claire Lombardo
Bompiani, luglio 2024

Traduzione di Maia Notarfranchi

pp. 574
€ 22,00 (cartaceo)
€ 14,99 (ebook)

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Sono legati da qualcosa di straordinario: come i superstiti di un’esplosione nucleare o gli spettatori di un concerto dei Beatles. (p. 552)


Quella di Julia e Mark è la storia di un grande amore, nato per caso e coltivato con attenzione e cura. I due non potrebbero essere però più diversi: lui è un ragazzone buono, alle spalle ha una famiglia solida e affettuosa, ha fatto carriera in ambito universitario ed è mosso da poche, granitiche certezze; lei, invece, ha trascorsi affettivi burrascosi, un padre assente e una madre da cui ha preso le distanze appena ha potuto e che pure si ripresenta a intervalli regolari come agente del caos. È fragile, complicata, dominata dalla paura dell’abbandono, pronta a rimettere in discussione ogni certezza. Eppure l’inizio del romanzo li trova, marito e moglie, in uno stato di quiete condivisa, apparentemente appagante: Julia è al supermercato per procurarsi il necessario per festeggiare il sessantesimo compleanno di Mark, insieme agli amici e ai due figli, ormai grandi. Nessuno può immaginare che, nei trascorsi della famiglia perfetta, si nasconda qualche crepa, che qualche rattoppo continui a offrire la propria superficie scabra a chi lo sfiori con la dovuta attenzione.

La stessa Julia ha accuratamente rimosso ogni traccia del passato, e quasi non ci pensa più. Almeno fino a quando, per caso, nel reparto ortofrutta non incontra Helen Russo, una donna che riemerge dalle nebbie di un anno terribile, ormai risalente a quasi vent’anni prima.

Negli ultimi vent’anni nella sua vita ci sono state miriadi di svolte; molte sono proprio il frutto di quell’anno tossico, dei minuscoli virgulti verdi germogliati su una terra devastata. Un nuovo lavoro, un altro figlio, un raddoppiato impegno a far funzionare il matrimonio, e poi le cose si sono depositate nella routine. […] La Julia di una volta rimarrebbe allibita vedendo com’è diventata. (p. 13)
Dal momento di questo incontro fortuito, attraverso un sistema narrativo costituito da continui e ben calibrati salti temporali, Claire Lombardo inizia a ricostruire, progressivamente, la storia di una donna, che è poi anche la storia di un matrimonio. Diciotto anni prima, infatti, mentre vagava in preda a un malessere esistenziale a cui non sapeva dare un nome, ma che avrebbe potuto essere definito a tutti gli effetti una severa depressione post partum, Julia aveva incontrato all’orto botanico una volontaria, Helen Russo, che le aveva posto le domande giuste, dato un nome al suo sentire.
La vita era tutt’altro che deliziosa, allora, quei giorni nebulosi e ovattati quando non conosceva ancora Helen Russo, giorni così interminabili, paralitici, monotoni che Julia stentava a distinguerli. […] Il mondo aveva cominciato a sgretolarsi, oppure lei e Mark avevano disimparato a parlarsi, o magari né l’una né l’altra cosa, forse Julia aveva semplicemente smesso di vivere in un perenne stato febbrile; […] si sentiva inerte, come imbalsamata. Non dormiva; il suo monologo interiore, alimentato dall’abuso di caffeina, si era fatto irrequieto. […] Si sentiva disincarnata, in balia degli eventi. (pp. 24-25)

Helen appare fin da subito stabile, sicura, monolitica. Si offre come amica, confidente, apre le porte della sua casa, la introduce al suo ménage coniugale, permette a Julia di affacciarsi a una vita cesellata a puntino. È in casa sua che la giovane conosce Nathaniel, il figlio minore, che è bello e disordinato, inconcludente e passionale, e che rischia di farle mandare tutto a rotoli. Al contempo, però, appare chiaro al lettore che non è lui a rappresentare la vera minaccia: quello che fa vacillare Julia è l’esperienza di un’esistenza diversa, in cui sentirsi compresa e accolta, qualcosa che aveva dimenticato, o in cui non aveva mai davvero sperato. Al centro di questo risveglio c’è il rapporto, unico, viscerale, con Helen, che porta a chiedersi che cosa stia cercando davvero la donna. Un senso? Un’evasione? Un’amicizia vera, diversa dalla superficialità ipocrita che sperimenta nella sua quotidianità piccolo-borghese? O forse, invece, una madre?  Helen rappresenta, in effetti, una figura più grande e autorevole, una donna premurosa, accudente, che riesce a essere al tempo stesso un genitore attento e una professionista realizzata, tutto quello che Anita, la mamma di Julia, non è mai stata.

Al cuore della narrazione di Così come è sempre stato, come già in Mai stati così felici, è il tema della maternità, declinato in un’indagine profonda del femminile tra forza e insicurezza. Julia è stata una figlia infelice, trascurata, che si porta dietro un grumo di questioni irrisolte, di sensi di colpa, e l’impressione di non meritare la felicità. Spesso schiva le relazioni, o le rovina attivamente, per paura che siano gli altri ad abbandonarla, come hanno fatto, seppur in modo differente, i suoi stessi parenti. È «la regina della fuga» (p. 11). Questo la rende a sua volta una madre imperfetta, che al tempo ama e subisce i figli, rispetto ai quali sente di non essere mai all’altezza. Che ci sia un trauma nascosto nel suo passato è chiaro presto, all’interno della narrazione, ma gli indizi che l’autrice dissemina nel testo sono rarefatti, e bisognerà oltrepassare ampiamente la metà del volume per poterne sapere di più, e per poter quindi inserire i comportamenti e le scelte della protagonista in uno scenario più completo.

Julia è un personaggio in balia della propria fragilità, che la spinge a fare errori e a scegliere anche per gli altri, a interpretare il loro pensiero e anticiparne le intenzioni. Così fa con il marito, o con la Anita, che mette continuamente alla prova; o anche con Helen, decidendo unilateralmente che l’interesse della donna non potesse che essere mosso dalla compassione, e quindi che l’amicizia fosse impari, e pertanto sacrificabile: 

Mi piaceva parlare con te, Julia. C’era una gran sintonia tra noi. Secondo te mi facevi pena? E se anche fosse cosa ci sarebbe di male? Cosa c’è di sbagliato nel prendere atto che una persona sta attraversando un momento difficile? Nel prendere atto che puoi darle qualcosa che le manca? Pensi che sia meglio far finta di niente e lasciare la gente in balia dei propri tormenti? (p. 545)

Questa tendenza all’autodistruzione genera un sentimento ambivalente nel lettore, che da un lato è portato a empatizzare con la donna, dall’altro ne è invece sottilmente infastidito, specialmente nel constatare gli effetti del suo comportamento sui comprimari.

Va detto che, rispetto al romanzo precedente, il sistema dei personaggi è meno variegato, e quindi l’intreccio risulta meno mosso, nonostante l’alternarsi dei piani temporali. Non si può non pensare che la stessa vicenda avrebbe potuto essere trattata anche in un numero di pagine decisamente inferiore. D’altro canto, l’autrice anche in questo volume procede per affondi successivi, nel ricostruire un ritratto dettagliato dell’interiorità dei suoi protagonisti, e rifugge ogni tendenza ad assolutizzare sentimenti e situazioni. Va a caccia di sfumature, dei chiaroscuri, delle ambiguità connesse all’esistenza di ciascuno. Ne deriva un panorama complesso e sfaccettato dell’esistenza, che viene definita come somma di singoli istanti significativi, ma anche nel suo quadro d’insieme, in una prospettiva di lungo corso. I personaggi crescono, e cambiano; gli equilibri si ridefiniscono, e nulla appare mai davvero perduto, nulla risulta irreparabile. Così come è sempre stato risulta quindi una storia di inciampi e recuperi, una storia di seconde occasioni, una storia – alla fine e fondamentalmente – di rinascita e speranza. 

Carolina Pernigo