Questo libro esaurisce un desiderio: che il mio corpo sia senziente e abbia da sé coscienza dei movimenti che ha fatto e degli urti che ha subito. Che tutte le cicatrici e le fratture che ho immaginato possano essere una mappa per ripercorre quei brevi tratti in cui il mio movimento era in sincronia con lo sport, e i lunghi tratti in cui lo sport è stato in sintonia con la vita. Perché ho vissuto con il mio corpo molto più di quanto la mia memoria ricordi. (p. 20)
Queste parole programmatiche aprono Corpi che contano, di Nadeesha Uyangoda (66thand2nd): dopo L’unica persona nera nella stanza, Uyangoda torna a pubblicare una non-fiction, a metà tra saggio e memoir, che questa volta riflette sui corpi razzializzati negli sport. Ogni capitolo parte da una riflessione sull’esperienza personale dell’autrice in vari sport, e il legame che ciascuno di questi ha avuto con la sua formazione identitaria, poi lo sguardo si apre alla storia, alla funzione politica e sociale che lo sport ha spesso rivestito.
Su tutti i ricordi personali, il passaggio dal cricket alla pallavolo assume un ruolo particolarmente simbolico: «Quando ho iniziato a giocare a pallavolo, il cricket era un ricordo sfocato, qualcosa che, più che a un altro mondo, apparteneva a un’altra vita» (p. 35), scrive Uyangoda, tracciando una linea di demarcazione tra i suoi coetanei rimasti in Sri Lanka, a giocare a cricket tra strade polverose, e la sua scoperta dell’opportunità, tutta borghese, di disporre del tempo libero. Interessante la riflessione sulla percezione dell’immigrato, dal quale lo sguardo disinteressato di un nativo si aspetta che impieghi tutto il suo tempo in qualcosa di produttivo e serio, come lavorare per migliorare la propria condizione di vita.
A questi passaggi di critica sociale Uyangoda alterna lunghe pagine sulla storia e la fortuna degli sport, in primis il cricket – attraverso le partite più leggendarie, la prima nazionale femminile, il lanciatore più forte di sempre – utili per comprendere la misura della diffusione dello sport in India, e il suo impatto sociale, ma poco scorrevoli per un lettore non appassionato della materia. Molto più interessanti abbiamo trovato le pagine sullo sfruttamento dello sport da parte della politica, di entrambe le sponde: per esempio, la valorizzazione del corpo atletico da parte delle destre, che ne fanno il centro unificante di un'auspicata nuova identità nazionale. O, al contrario, l’investitura delle pratiche sportive come uniche fautrici di integrazione, fenomeno che spesso porta il retrogusto amaro dell’emarginazione razziale da altre sfere della società.
Non mi si fraintenda: continuo a trovare vagamente fastidiosa la retorica dello sport come strumento di integrazione, nonostante la maggior parte delle ricerche che ho consultato per scrivere questo libro non di rado adotti proprio questo punto di vista. E sebbene non riesca a delineare con precisione i motivi di questo fastidio, ho la sensazione che abbia a che fare con la povertà e la classe: l’idea che lo Stato deleghi ai margini, alla controcultura, la creazione di opportunità e di comunità, per appropriarsi dei risultati senza aver contribuito economicamente e culturalmente a quei meriti. In poche parole, una pratica sportiva complessa viene sfruttata per costruire la retorica del buon migrante integrato, senza che quella occupi uno spazio di primo piano nelle politiche sociali. (p. 32)
La riflessione di Uyangoda si spinge fino all’estremo contemporaneo, alla nazionale italiana femminile di pallavolo, alle celebrazioni e polemiche che hanno investito Paola Egonu e alla figura di Vannacci, al quale l’autrice rivolge critiche severe e ben argomentate. Interessante il capitolo Se lo sport ha smesso di spiegare noi e ha cominciato a spiegare il capitalismo?, in cui attraverso una rassegna di alcuni esempi sportivi degli anni Duemila, oltre che allo spoglio di studi sul tema, Uyangoda cerca di rispondere a domande come: «i bias razziali hanno un impatto diretto sulla performance dei giocatori con pelle scura?» (p. 82), oppure «Se il rapporto di prossimità tra l’essere umano e un dato spazio pubblico è qualcosa che si costruisce nel tempo, cosa accade se a un gruppo di individui ne viene vietato per legge l’accesso?» (p. 85).
Corpi che contano è un libro sul rapporto tra sport e corpo – femminile, immigrato, razzializzato – che, almeno in Italia, mancava. L’intermittenza dei ricordi personali di Uyangoda rende le riflessioni più tridimensionali, apprezzabili più da vicino, e rendono il libro un ottimo punto di partenza per approfondire la questione: un modo per andare al di là della facile e un po' sterile retorica, promossa da molti prodotti culturali, dello sport come finestra per il riscatto sociale.