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«È solo, dice lei. Non lo siamo tutti?»: "Intermezzo" e la forza letteraria di Sally Rooney

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Intermezzo
di Sally Rooney
Einaudi, novembre 2024

Traduzione di Norman Gobetti

pp. 432
€ 22 (cartaceo)
€ 10,99 (ebook)

E, dunque, com’è Intermezzo, il nuovo, attesissimo romanzo di Sally Rooney? Prima di addentrarci nelle pieghe del testo e della narrazione partiamo semplicemente da qui: è un ottimo romanzo, il più maturo e complesso finora della scrittrice irlandese. Da leggere non per “stare sul pezzo” perché tutti ne parlano, ma per la sua reale valenza letteraria, ben al di là delle mode del momento, del dibattito culturale sempre più frenetico e troppo spesso sterile. Da leggere perché di Rooney sentiremo parlare a lungo, ormai ne possiamo essere certi. 

Intermezzo (questo anche il titolo originale) è il quarto romanzo dell’autrice che arriva a distanza di sette anni dal suo esordio, Parlarne tra amici (Conversations with friends) (qui la recensione di Gloria Ghioni e qui la mia) a cui sono seguiti Persone normali (Normal people, l’anno dopo), Dove sei mondo bello (Beautiful World, Where are you?, 2021) e una serie di racconti, poesie, saggi. E arriva con la forza di un’autrice che intende imporsi nella scena intellettuale oltre le mode del momento e le campagne di marketing, con una voce più matura, salda, la postura autoriale ben definita. Intermezzo si inserisce perfettamente nella bibliografia di Rooney e allo stesso tempo la rinnova: come nelle narrazioni precedenti ci sono l’Irlanda contemporanea, con le sue complessità e contraddizioni, il discorso di classe (seppur meno marcato), la coppia di personaggi, le ambiguità delle relazioni e rapporti non convenzionali. È la realtà, il mondo contemporaneo in cui viviamo e che Rooney osserva e interpreta con sguardo lucido, attenta a restituirci le ombre, le zone grigie. 

Contemporaneo e allo stesso tempo universale, per le tematiche trattate che travalicano tempo e spazio. Perfettamente inserito nella bibliografia dell’autrice dunque, ma anche profondamente innovativo nel suo più ampio discorso letterario, a partire dal punto di vista adottato: per la prima volta Rooney sceglie due voci maschili, i punti di vista dei fratelli Peter e Ivan, le voci che si alternano nella narrazione. È una scelta fondamentale in questo libro, attraverso cui Rooney costruisce la rappresentazione di una mascolinità non stereotipata, mettendone in evidenza le fragilità, le mancanze, il carattere umano. Ecco, perché umanissimi e reali sono da sempre i personaggi di Rooney, con il loro carico di difetti, debolezze, sogni incerti; si muovono in un mondo altrettanto concreto e reale, agiscono e parlano privi di quell’artificiosità di tanta altra narrativa contemporanea. Una mancanza di artificiosità che resta tale anche nelle scelte meno convenzionali, nell’ampio spettro delle emozioni, nelle etichette che sfuggono, perfino nelle citazioni e riferimenti filosofico-letterari di cui questo romanzo è intessuto. Reali e concreti, naturalmente, anche nei dialoghi, la cosa più difficile insieme al sesso da rendere in letteratura. Di dialoghi, a onor del vero, ce ne sono pochi e mai nel senso più convenzionale, perché Rooney sceglie di dare voce a Peter e Ivan mediante una sorta di flusso di coscienza, alternando le voci-pensieri dell’uno e dell’altro, mantenendo intatte le peculiarità del singolo. Il dialogo fuoriesce dunque da questo flusso, non ha bisogno di segni grafici specifici e laddove il confine di uno scambio si fa meno netto è rivelatore di una compenetrazione tra pensiero e discorso, tra un personaggio e l’altro, perfino tra noi lettori e loro.

Il lavoro di Norman Gobetti – che subentra a Maurizia Balmelli traduttrice dei titoli precedenti – è davvero notevole, attento a cogliere tutte le sfumature del testo, i rimandi, i cambi di tono e trasporli nella lingua di destinazione, misurandosi con le voci tanto diverse dei due protagonisti e restituendole al lettore italiano in tutta la loro complessità e forza. La voce di Peter, il fratello maggiore, è frammentata, sincopata, urgente, specchio del tormento del personaggio, i pensieri che si rincorrano ossessivi, la depressione cui non viene mai dato nome, l’abuso di droghe e alcol, la mancanza di sonno, il caos dal quale non riesce a districarsi. La voce di Ivan è misurata, analitica, talvolta si inabissa in dettagli che portano ad altri dettagli, ma pacata, in una narrazione fatta di frasi più lunghe, di più ampio respiro. Il flusso dei pensieri dei due fratelli che si muove su strade diverse ne riflette la stessa distanza a cui si trovano, nel rapporto tra loro, dentro le proprie vite, quantomeno in apparenza.

Peter è un avvocato trentenne con un passato di successi scolastici, premi e vittorie, spinto da una determinazione che l’ha portato ad affrancarsi dal tessuto famigliare d’origine, dall’essere il figlio di un immigrato dell’est Europa e che permane nel fastidio di dover troppo spesso fare lo spelling del proprio cognome, di doversi giustificare e sentirsi legittimato; ha una carriera ben avviata, una certa stabilità economica, uno status da mantenere. E un desiderio di morte che lo accompagna da sempre: «Vorrei essere morto. Di sicuro ogni tanto capita anche agli altri» (p. 65) è l’abisso che lo attira e di cui nessuno pare mai essersi reso conto. È legato sentimentalmente a due donne, Sylvia e Naomi, amandole entrambe in modo imperfetto, tra sensi di colpa, accuse, felicità in bilico. L’una consapevole dell’altra, le etichette che sfuggono per un rapporto impossibile da definire e per questo origine di altro caos.

«Mio fratello, il genio», ripete a più riprese Peter del fratello minore: Ivan ha ventidue anni e un passato da prodigio degli scacchi, anche se ora pare arrancare, la salita verso la conquista del titolo definitivo si fa più ardua. Non ha il carisma di Peter, crede di non possederne la determinazione né tantomeno l’adeguatezza alla vita. Solitario, in difficoltà nel relazionarsi con gli altri, dalle convinzioni assolute e qualche volta misogine, Ivan ha da poco concluso l’università e si barcamena tra una dimostrazione di scacchi, qualche workshop, lavori da freelance. A un torneo fuori Dublino incontra una donna, la direttrice artistica del centro culturale ospitante: Margaret ha trentasei anni e un passato scomodo, ma l'alchimia tra i due è immediata e le loro vite rapidamente si intrecciano.

Ma ci sono Ivan e Peter, prima del resto: hanno appena perso il padre dopo una lunga malattia e ognuno a proprio modo si trova a fare i conti con la sua morte, con certe distanze, con l’incomunicabilità che ne ha profondamente segnato i rapporti, con l’immagine che nel tempo si sono costruiti dell’altro. Il lutto, il confronto con la morte, è senz’altro un tema centrale in questo romanzo, ma la narrazione è scevra di inutili pietismi per mantenersi in equilibrio tra lucidità e sentimento.

Tristezza, lutto per suo padre, e una sorta di vergogna, perché ogni giorno che passava sembrava allontanarlo sempre più da lui e dalla vita che facevano insieme, una vita che stava sprofondando nel passato, nel mondo dell’infanzia e dell’adolescenza. La consapevolezza che l’età adulta, in cui ormai stava definitivamente entrando, e che sarebbe durata per il resto della sua vita, l’avrebbe trascorsa senza suo padre. Che stava diventando una persona che suo padre non avrebbe conosciuto. (p. 244)

Ivan e Peter condividono la perdita di un padre che è stata però una figura molto diversa per l’uno e per l’altro, tanto adesso nell’affrontarne la morte quanto nella vita passata insieme. È soprattutto Ivan, almeno nelle prime parti del romanzo, a confrontarsi più direttamente con la sua morte, a iniziare a dare voce ai sentimenti complessi da gestire, al vuoto della mancanza. È solo un ragazzo che ha perso ogni punto di riferimento, che da sempre considera se stesso un outsider, inadeguato alla vita.

Voler pronunciare e udire di nuovo quelle parole che non potranno mai più essere pronunciate o udite. Tornare ancora una volta alla casa, e trovarla non buia e vuota, ma ariosa e illuminata, con le finestre aperte. Passare un pomeriggio insieme, a giocare col cane, cenare, non far niente, stare insieme e basta, ancora una volta. (p. 188)

Ivan che è così giovane sotto il peso della perdita, sprofondato nella solitudine che quel dolore ha portato. Perché Peter è lì al funerale ma non c’è davvero, come non c’era già da tempo, via di casa, impegnato a costruirsi una carriera e una vita. Ognuno di loro è abbarbicato nella propria sofferenza e nella propria visione delle cose e servirà una deflagrazione – più di una in realtà – per scompigliare tutte le carte, provare a comprendersi. Il lutto condiviso non riesce ad avvicinare i fratelli, anzi, pare esacerbarne le differenze e le incomprensioni. Sono solo favolette quelle che ci raccontano di come le difficoltà uniscano le persone, il dolore faccia superare contrasti famigliari e acrimonia; la realtà è che siamo impegnati a resistere, tentare di farcela. «È solo, dice lei. Non lo siamo tutti?» (p. 19) e questa profonda solitudine avvolge tutti loro in forme diverse, e non è detto riusciranno a scalfirla, a tirarsene fuori. È una solitudine talvolta evidente, altre più celata ma non meno sofferta, altre ancora una scelta consapevole, di cui godere, da gustare per rimettere insieme i pezzi. 

Nella distanza tra Ivan e Peter, nelle loro incomprensioni, Rooney mette la vita, in un discorso che dal dettaglio minimo e tutto peculiare sa farsi universale: non abbiamo bisogno di essere passati attraverso un lutto, di essere campioni di scacchi in crisi, neppure di essere uomini, per avvertire le complessità di certi sentimenti, le parole che mancano o non sono abbastanza, le ipocrisie della società, le ombre, l’anelito alla felicità. Questo intermezzo nella vita di Ivan e Peter e degli altri personaggi che la popolano diventa, come ogni parola di Rooney, anche un atto politico, tanto quanto nei suoi discorsi pubblici più evidentemente mirati. Il discorso di classe, perno su cui si muovano le narrazioni precedenti, in Intermezzo appare forse meno marcato ma non del tutto assente ed è Peter a prendersene tutto il carico:

Non per eredità ma per merito […]. Questo loro non lo capiranno mai. Il mero privilegio, pensa, non può darti quello che lui ha acquisito con tanto sforzo. (p. 194)

È un discorso che si intreccia alla questione delle radici, alla discriminazione degli immigrati, al suo desiderio di confondersi con gli altri per non sentirsi più diverso e inadeguato; resistere, dimostrare di essere all’altezza, di essere il più bravo, avere successo nella sola accezione che oggi pare avere valore. Politico è anche il «disordine sentimentale» che Rooney racconta e in qualche modo legittima, il giudizio morale di fronte a ogni scelta del singolo che si discosta anche solo minimamente dal vivere comune. Che fare, dunque, se alla tua felicità non si appiccica nessuna delle etichette convenzionali? Per Peter il desiderio di «riprendersi tutto. Vivere la vita giusta» (p. 76) sarebbe fare una scelta tra Sylvia e Noemi, ma l’amore e le relazioni sono più complesse di così. Sylvia, che rappresenta il passato e «il conforto di una lunga frequentazione» (p. 18), quella vita giusta, appunto, spezzata di netto dall’incidente di lei avvenuto tanti anni prima ma dalle conseguenze irreparabili. Naomi, così giovane e vitale, anticonformista, senza un soldo, in un gioco di potere con Peter di cui è davvero difficile distinguere chiaramente chi ha il controllo, chi lo subisce. Non è, badate bene, una storia di lui, lei, l’altra, ma un intreccio più complesso, che mette in moto considerazioni davvero interessanti e scardina un bel po’ di stereotipi.

Il giudizio morale, si diceva poc’anzi, occupa uno spazio considerevole nei pensieri dei personaggi e fuori dalla pagina è qualcosa cui costantemente siamo sottoposti, per ogni scelta o non scelta. Anche questa rappresentazione è un atto politico, che si intreccia al discorso sulla differenza di età tra partner e di cui Peter e Ivan rappresentano i due poli morali appunto. La relazione di Peter con una donna dieci anni più giovane, quella di Ivan con una donna dieci anni più grande: siamo ancora a questo punto, è talmente radicato il patriarcato, quel termine che qualcuno in questi giorni vorrebbe farci credere non esistere più dagli anni Settanta. Ancora una cosa, prima di chiudere queste riflessioni che pure mi sembra abbiano solo scalfito la superficie di un romanzo che non esaurisce qui il discorso: il sesso. Intermezzo ne è intriso e Rooney argina il pericolo della sua rappresentazione letteraria caricandolo di significato, ergendolo a simbolo nelle vite dei personaggi e facendo così finire in secondo piano qualche trascurabile difetto e artificiosità. Per Ivan e Peter, per Margaret, perfino per Sylvia – che a seguito dell’incidente ha subito un non meglio specificato danno che coinvolge anche la sfera sessuale – per Naomi anche se in forma diversa, il sesso è il mezzo per combattere la morte, per dire: “guardami, ci sono, sono vivo, nonostante tutto”. Per resistere, per continuare «comunque a vivere». Il sesso che forse complica anche le cose, pure quando manca, il metro con cui molto spesso definiamo le relazioni, perfino le persone. Intermezzo è anche una storia di corpi – tutti piuttosto belli, quantomeno negli occhi di chi li osserva con sentimento – e del rapporto con il proprio. Ed è pure attraverso i corpi, dunque, che il rapporto tra Peter e Ivan, centro nevralgico di questa storia, si compie: mediante la distanza fisica, mediante i gesti minimi, mediante il tocco, perfino attraverso l’esplosione violenta.

In questa complessità, nell’intreccio di tematiche e spunti di riflessione, nella malleabilità della lingua capace di costruire mondi, Sally Rooney ha costruito il suo finora più maturo romanzo, una storia fatta per restare. Oltre il vociare di queste settimane. Solo la letteratura.

Debora Lambruschini