Maria Rosa Cutrufelli, siciliana, che ha diviso la sua vita tra Messina e Firenze, tra l’Italia e l’Africa, approdando infine a Roma, è riuscita come nessun altro a cogliere nella figura di Maria Giudice, siciliana d’adozione, tutta la passione, l’impegno, il coraggio e la modernità di una socialista sui generis, che fece della lotta la sua ragione di vita e della politica il suo cammino.
Come in un album fotografico, i capitoli, che vengono presentati come scatti di vita, mettono a fuoco per la prima volta lei, la donna che fu punto di riferimento di tante battaglie, e che a volte viene ingiustamente ricordata solo per essere stata la madre di una figura ambigua e ribelle, rivalutata anch’essa dopo la morte e negli ultimi anni, come quella di Goliarda Sapienza.
Non bisogna trascurare però, in questo breve libretto che non è l’unico scritto che la Cutrufelli dedica a questa figura (l’ultimo è stato pubblicato da Giulio Perrone e ora rilanciato da Neri Pozza), il rapporto di amicizia che lega la scrittrice alla figlia della sua protagonista e che è rappresentato proprio all’inizio,
Parlavamo e parlavamo, in modo più confuso del solito, interrompendoci a vicenda per inseguire frammenti di emozioni: i pozzi petroliferi in fiamme, i soldati scalzi nel deserto, i giornalisti con la maschera antigas. E la televisione accesa notte e giorno sul Grande Spettacolo: la guerra trasmessa in diretta mondiale, per la prima volta nella storia. (p. 7)
Nel raccontare di quelle riunioni, l’autrice mette in risalto l’idea di una sorellanza che è produttiva tra le amiche della cerchia della scrittrice, ma anche una sorta di lascito morale nel loro discutere contro la guerra, segno che i frutti del lavoro della madre di Goliarda, donna dell’Ottocento ma modernissima per atti, pensieri e parole, hanno dato dei frutti rigogliosi. Pur senza parlare di femminismo, a cui la stessa Giudice era allergica, l’impegno nei confronti delle lotte di piazza, la forte valenza sindacalista e i ruoli di rilievo ricoperti in politica sono innegabilmente legati a un impegno “umano” che va oltre ogni partigianeria di genere.
Nel piccolo borgo medievale di Codevilla, nell’Oltrepò Pavese, Maria Giudice si distinse a tal punto da riuscire a studiare, cosa non scontata per una donna nata nel 1880, e se l’amore per la politica lo ereditò dal padre Ernesto, l’amore per le lettere le verrà trasmesso dalla madre Ernesta (stesso nome del padre ma carattere opposto), severa e molto cattolica, al punto infatti da portarla a studiare dalle suore, a Voghera, e da qui diventerà maestra. Qui nascerà l’impegno socialista, grazie anche all’incontro con il giornalista Ernesto Majocchi, direttore del settimanale «L’uomo che ride» e poi del quindicinale «La parola dei lavoratori».
Saltando avanti di qualche anno la ritroviamo alla guida della Camera del Lavoro di Voghera, che non è che il preludio alla stessa nomina, nella sede di Torino, qualche tempo dopo. Non le mancano il coraggio e la volontà estrema di protestare in prima persona, con conseguenze pesanti, come a Borgosesia (1914), davanti alla Manifattura Lane, dove, solidale con alcune operaie licenziate, viene trascinata a forza dalle guardie e si guadagna la prigione. Ce ne saranno altri di arresti nella sua vita, tant'è che la copertina del libro è proprio una foto segnaletica. In carcere conoscerà Carlo Civardi, intreccerà al suo impegno politico una serie di gravidanze. Alla morte del compagno Carlo, si rifugerà in Svizzera, conoscendo icone del socialismo come Angelica Balabanoff, con cui ideò la testata giornalistica «Su, compagne!».
L’abbiamo definita socialista sui generis perché innanzitutto sposò sulla propria pelle le battaglie, ma non prese alla leggera nemmeno l’insegnamento, sebbene l’impegno in prima persona la vedeva spesso finire in prigione, in anni in cui le proteste costavano la reputazione (e infatti ad un certo punto le fu precluso l’insegnamento per ragioni morali) e spesso anche la vita, e poi - cosa anomala per una donna impegnata e socialista - fu madre di nove figli, sette di questi avuti dal rapporto di “libera unione” con l’anarchico Carlo Civardi. Con lui romperà i rapporti perché divenuto convinto interventista, imbracciò le armi e come tanti morì al fronte, nel 1917. Gli ultimi due figli, tra cui Goliarda, li ebbe dall’avvocato Giuseppe Sapienza, al quale si legò quando fu mandata in Sicilia per coordinare le azioni del partito.
A Catania, come era già avvenuto in altre città, tra cui Torino, ebbe un ruolo di responsabilità nella Camera del lavoro. Era ancora in Sicilia quando la dittatura fascista abolì le libertà civili e politiche, e fu sottoposta a vigilanza fino alla caduta del regime. Per permettere alla figlia di iscriversi all’Accademia di arte drammatica, si trasferì a Roma nel 1941 e contribuì al dibattito sulla costituzione dell’UDI.
Dall’analisi della sua vita e dai riscontri, anzi dalle assenze di questa figura nel panorama storico più comune, notiamo subito come il torto che subisce la figura di questa pasionaria italiana sia duplice: c’è quello legato alla sfera familiare, in cui Maria Giudice è ricordata spesso solo in relazione con la figura della figlia, e c’è quello ancora più grave, perché perpetrato da parte politica, a cui Giudice dedicò tutta la sua vita, ed è quello socialista, che non annovera la figura di questa donna coraggiosa tra quelle notevoli e meritevoli di riconoscimento.
L’affetto e il rigore storico sono le due cifre su cui muove questa narrazione, un affetto non sono determinato dalla conoscenza e dal legame, ma un affetto di intenti e di lotta che accomuna due donne; questo ci fa vedere la sequenza di foto e di quadri trattati, come all’interno di un album di famiglia e nello stesso tempo ci riporta al materiale di archivio, alla ricerca storica, all’indagare inarrestabile dentro le vite di chi l’ha circondata e dentro le motivazioni di alcune scelte oggi apparentemente incoerenti, ma che fecero di Maria Giudice una figura unica, instancabile, un esempio per le generazioni a lei coeve e anche la necessità di riscoprirla e rivalutarla in tempi così smemorati.
Samantha Viva