di Paolo Di Paolo
Il Mulino, ottobre 2024
pp. 240
€ 16,00 (cartaceo)
€ 11,99 (ebook)
Cosa rimane dei nostri anni trascorsi a scuola? Le tabelline, l'area del quadrato costruito sull'ipotenusa, Tityre tu patulae, la fotosintesi clorofilliana e poi un'intermittente sequela di parole rimate e non, che si affastellano nella nostra memoria in ordine sparso: D'in sulla vetta della torre antica, Tanto gentile e tanto onesta pare la donna mia quand'ella altrui saluta, Ei fu. Siccome immobile, e via dicendo...
Come filastrocche, spesso, gli italiani portano come bagaglio - Paolo Di Paolo si attarda su questo termine - parole desuete, di cui ai tempi spesso non hanno compreso il senso e che da adulti, a meno che non siano tornati "dall'altro lato della barricata", come insegnanti, hanno smesso di ricordare.
Ho fatto anche io l'errore - o forse è solo una distrazione - di lasciare allontanare i versi studiati a scuola. Fatta eccezione per qualche obbligo universitario, non ho mai pensato di rileggere - come si dice? con altri occhi - le poesie studiate a scuola. L'ho fatto qui, in questo libro. (p. 15)
Rimembri ancora è un viaggio a ritroso in poesie talmente note da non essere conosciute (direbbe Hegel). Da adulti alcuni diventano lettori, magari acquistano in libreria le poesie di Neruda, Szymborska, Baudelaire, Dickinson, ma è difficile immaginare che un adulto non addetto ai lavori vada a rileggere I sepolcri di Foscolo, il Cinque Maggio di Manzoni, o addirittura Carducci, relegato negli scaffali più polverosi della nostra memoria. Ciò che invece bisognerebbe fare, come scrive Di Paolo nei ringraziamenti finali, è dare a noi stessi l'illusione di tornare studenti,
o meglio: di avere ancora la possibilità - così preziosa e sconvolgente, spesso negata alle nostre ripetitive vite adulte - di imparare qualcosa. (p. 221)
Il primo capitolo del libro si chiama, non a caso, Amare la poesia (da grandi), perché è di poesia che abbiamo bisogno, soprattutto quando siamo adulti e il senso pratico e le necessità della vita ci opprimono. «Tu mica sei sempre stato così rincoglionito come oggi, abbruttito dalle circostanze, il mestiere, il bere, le sottomissioni più funeste... Te la senti, per un momentino, di tornare alla poesia ?... di fare un salterello di cuore e di minchia alla lettura di un'epopea, tragica certo, ma nobile... sfavillante!... Te ne credi capace ?...» si domandava Louis Ferdinand Céline in Morte a credito; Paolo Di Paolo ci chiede questo e un altro sforzo: provare a leggere come se fosse la prima volta qualcosa che è annidato nella nostra memoria più profonda?
Si può tentare di ritrovare da adulti la poesia, anzi più precisamente le poesie che abbiamo incontrato a scuola? Togliere la polvere del già sentito, del pregiudizio che istintivamente ci fa dire che no, i versi di Manzoni e di Leopardi, di Foscolo e di Carducci, di Pascoli o di Montale non ci sono serviti a granché, crescendo; e peggio, che non ci serviranno più. (p. 33)
Ma è proprio l'inutilità il loro pregio: perché le poesie si sottraggono a quell'etica dell'utile che ormai imperversa ovunque, alla didattica per competenze, alla scuola propedeutica al mercato del lavoro. Le poesie imparate a scuola, con le loro tragedie esistenziali o metafisiche - dalla morte del figlio di Carducci, al funesto dì natale di Leopardi - ci sottraggono all'illusione dell'eterna spensieratezza di cui oggi gli adulti hanno uno spasmodico bisogno. Avere dimenticato quelle poesie, suggerisce Di Paolo avvalorando la propria tesi con splendide parole di Rilke, potrebbe essere un momento necessario per riscoprirle in modo nuovo. L'oblio, come Proust ben sapeva, è un passaggio necessario per una epifania significativa di un ricordo. Le "epifanie", mi si passi il termine, di Rimembri ancora sono segnalate in veste grafica da bordi grigi, dove - nella seconda parte del testo - trovano spazio le poesie e le spiegazioni di queste. Anzi, più che spiegazioni si tratta di introduzioni narrative e questo le rende non solo diverse da quelle dei nostri ricordi, ma anche ben spendibili a scuola oggi, per avvicinare i ragazzi a testi che non sono così lontani dalla loro sensibilità come le antologie scolastiche spesso le fanno apparire.
Proprio il secondo capitolo, intitolato Care, vecchie antologie!, ci riporta alla memoria di Paolo Di Paolo, la cui madre era insegnante, ma anche a uno dei temi oggi discusso in sede didattica: il senso dell'antologizzazione. Io, che nella mia esperienza di docente le antologie più le subisco che le amo, ho sorriso delle considerazioni di Di Paolo sul fatto che generazioni di italiani, formatesi sulle antologie
hanno, da quelle pagine, appreso la natura un po' svagata e sentimentale degli uomini di lettere, le contorsioni e astrazioni dei loro pensieri - chiedendomi cosa mai li spingesse a occuparsi di gelsomini notturni e di tamerici, quando l'esistenza è così varia e complicata, e viene richiesto a ogni angolo di strada di mettere in atto il proprio senso pratico. (p. 41-42)
Tra coloro che si "occupano di gelsomini notturni e tamerici" una menzione va ai dimenticati, a quelli che non leggiamo più, perché usciti dal canone delle antologie e del gusto di critici e insegnanti. Ma non sono solo i nomi a svanire e ad essere rimpiazzati, anche il senso e la motivazione per cui insegnare letteratura, negli ultimi decenni ha subito vari scossoni.
Letteratura come pedagogia, come allenamento alla virtù. Una palestra etica. Per carità, buone buonissime intenzioni, ma con esiti dubbi. C'è chi spende decenni a liberarsi dal pregiudizio o dall'insofferenza che questa ipoteca scolastica genera - l'idea che i romanzi e le poesie siano o debbano essere smerciatori di buoni sentimenti. (p. 53)
Sebbene la retorica del tanto bistrattato libro Cuore sia oggi demonizzata, in realtà la scuola impiega ancora la letteratura e le poesie per finalità estrinseche e "civiche". Quindi ho trovato anche in questo le riflessioni di Paolo Di Paolo pertinenti e quanto mai attuali.
La seconda parte del testo, come dicevo, si sofferma su una scelta di poesie da riscoprire: Dei sepolcri di Ugo Foscolo, Il Cinque Maggio di Alessandro Manzoni, Davanti San Guido di Giosue Carducci, La signorina Felicita di Guido Gozzano, X agosto di Giovanni Pascoli, Canto notturno di un pastore errante dell'Asia di Giacomo Leopardi, Soldati di Giuseppe Ungaretti e Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale. Questi ultimi danno all'autore la possibilità di esprimere le proprie considerazioni sul Novecento letterario a scuola, sacrificato, «un corridoio che si percorre a passi svelti» (p. 197)
E poi, fra le dimenticate, ovviamente: le donne. Dove eravate tutte? si chiede Di Paolo. Alla fine, la poesia un modo che abbiamo trovato per ricordarci di essere vivi.
Le parole, più di molti oggetti fisici, sono soggette a usura. Basta usarle troppo, basta soprattutto usarle male. Non scadono, però perdono consistenza e incisività. Diventano ovvie, esauste. Fanno poca luce, si spengono. E hanno bisogno di ricaricarsi, di riguadagnare energia elettrica. (p. 219)
La poesia è il cavo che ricarica le parole donando loro di nuovo significato e potenza. Con chiarezza e una voce al tempo stesso autorevole e confidente, Paolo Di Paolo riporta a casa alcune di queste parole, nel luogo in cui esse riacquistano respiro.
Deborah Donato
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