La maledizione degli eredi: “L’anello rubato” di Selma Lagerlöf



L’anello rubato 
di Selma Lagerlöf
Iperborea, 2024

Traduzione di Silvia Giachetti

pp. 140
€ 16.50  (cartaceo)
€ 9,99 (ebook)


Opera della maturità dell’autrice, L’anello rubato è il primo episodio di una trilogia dedicata ai Löwensköld, ma si può leggere anche come volume autoconclusivo. Il motivo è noto alla tradizione fiabesca, cui Selma Lagerlöf spesso attinge: al centro della vicenda, c’è infatti un anello rubato, che ha però anche i tratti dell’anello stregato, quello di tolkeniana memoria, in grado di far emergere dagli individui le peggiori pulsioni. Così il buon contadino Bård Bårdsson può trafugarlo dalla tomba del proprietario defunto, suo figlio minacciare chi prova a sottrarglielo, e così avanti, in una catena di possesso (e possessione) che pare inestinguibile. Il gioiello è quello del vecchio generale di Löwensköld, proprietario della tenuta di Hedeby, che lo aveva ricevuto direttamente da re Carlo XII, all’inizio del XVIII secolo, e lo considerava il suo bene più prezioso. Per questo, dal momento in cui gli viene sottratto, lo spirito del Generale non si dà pace e inizia una persecuzione violenta e sistematica dei responsabili, condannati a una rovina destinata a trascinarsi sulle generazioni successive. Nella dinamica di sottrazione e ricerca del bene, vengono coinvolti anche degli innocenti, i fratelli Ivarsson e il loro protetto Paul Eliasson, in procinto di sposare la giovane Marit. Accusati ingiustamente del furto, vengono condannati a morte nonostante i segnali di senso contrario ricevuti nel momento della pubblica ordalia. Lagerlöf mette in campo, in più punti del racconto, la dialettica spesso tesa che si consuma fra religione e superstizione, in cui quest’ultima, radicata nella percezione popolare, finisce spesso per prevalere. 

Questo racconto, va detto, ha subìto il tempo più di altri di Selma Lagerlöf: la storia risulta in qualche modo meno suggestiva, ed emerge in maniera più spiccata l’impostazione della narrativa popolare a trasmissione orale, cui viene fatto esplicito riferimento nei momenti in cui l’autrice prende la parola in prima persona, per commentare o integrare gli avvenimenti:

le anime seguivano il consiglio del fuoco e cominciavano a giocare. Raccontavano storie, inventavano indovinelli, pizzicavano le corde del violino, intagliavano rose e arabeschi su manici e utensili. Giocavano e cantavano canzoni. […] E intanto il gelo si scioglieva dalle membra infreddolite e il cattivo umore dallo spirito. Tutti si sentivano rianimati e si divertivano. […] Quel che più si addiceva al focolare erano i racconti d’avventura e di ogni sorta di temerarie gesta. Divertivano tutti, vecchi e giovani, e la scorta era infinita. Perché di avventure e gesta, grazie a Dio, ce n’è sempre stata abbondanza a questo mondo. (p. 61)
Dopo molte ricerche, e nel momento in cui la sciagura torna ad abbattersi su Hedeby e sugli eredi del Generale, in particolare sul giovane Adrian, entra in scena la figura della signorina Spaak, governante di casa e donna dal solido spirito pragmatico. È lei la prima a intuire che quella dello spettro è una ricerca disperata, che non troverà pace finché l’anello non sarà restituito al legittimo proprietario.
Il finale del volume risulta certamente spiazzante (commenta nella postfazione la traduttrice, Silvia Giachetti, che la stessa Lagerlöf aveva pensato inizialmente a una conclusione differente), ma ricorda una lezione preziosa: che l’amore è gratuito, e basta di per sé. L’amore è quello che ha mosso Marit, nella devozione, e poi nella volontà di vendetta (o giustizia, che dir si voglia), ma è anche ciò che ha smosso in lei la compassione, l’empatia per la giovane signorina Spaak:
“Ecco cosa provavo a quel tempo. Ecco cosa vuol dire amare qualcuno. Era così dolce, così potente, l’amore!” […] E mentre l’amore si risvegliava in lei, ricordò quanto è straziante il dolore che si prova nel perdere la persona amata. (p. 120)
L’amore è ciò che salva, alla fine di tutto, anche chi è destinato a dovervi rinunciare, perché è ciò che continua a nutrire l’anima di chi vi si abbandona anche nel vuoto dell’assenza, o della rassegnazione. L’anello rubato, pur non raggiungendo i livelli di intensità di altri volumi come L’imperatore di Portugallia, Bandito o Il violino del pazzo, dove pure torna l'elemento fantasmatico, riesce comunque a innescare la riflessione, facendosi portavoce di tutto ciò che è importante per l’autrice e che consente di guardare anche ai suoi racconti di matrice più popolare e meno mediata con uno sguardo di consapevolezza:
La fiducia dell’uomo nel bene e l’amore per la vita affiorano nei suoi personaggi e nei loro gesti, negli attimi in cui mettono a nudo la profondità della loro anima. E l’ottimismo di Selma Lagerlöf non è semplicistico, è concezione di vita. (p. 135)

Carolina Pernigo