I volumi pubblicati da L'Ippocampo, specie nelle collane illustrati, sono sempre scrigni che permettono di accedere a luoghi altri per mezzo di modalità espressive diverse che intrecciano parole e immagini, e penetrare il mistero della creazione artistica, inabissarsi nel potere di storie senza tempo, cogliere il bello e l’estetica su cui si poggia. Da poche settimane l’amata casa editrice nata durante un pranzo in riva al mare a Genova e che nel 2023 ha festeggiato vent’anni di attività ha portato in libreria un nuovo volume di Alex Johnson e James Oses, già autori del bellissimo Una stanza tutta per sé dedicata ai luoghi degli scrittori. Questa volta Johnson (autore dei testi) e Oses (autore delle illustrazioni) ci aprono idealmente le porte degli atelier dei grandi artisti, in una carrellata abbastanza suggestiva di storie e disegni. Il mio entusiasmo contenuto è tanto per la materia trattata alla quale sono meno legata rispetto all’ambito letterario e quindi soggettivo, quanto alle informazioni un po’ scarne attraverso cui collocare gli artisti e le loro opere e questo è un giudizio più oggettivo. Naturalmente il volume per sua natura non può essere pienamente esaustivo né fungere da manuale di storia dell’arte, sia chiaro, ma è pur vero che qualche informazione in più sulle correnti di appartenenza e sulla produzione artistica dei protagonisti di questi ritratti avrebbe senza dubbio giovato al testo, dialogando così maggiormente anche con un pubblico non specializzato o dalle conoscenze sommarie in questo ambito. Detto questo Uno studio tutto per sé resta un’opera interessante, da collezione come tutto il catalogo illustrati de L’Ippocampo e per colmare le personali lacune si possono trovare altre vie partendo da qui.
Ciò che sicuramente è molto apprezzabile la varietà degli artisti, delle artiste e delle rispettive stanze da lavoro qui rappresentate: da Caravaggio a Basquiat passando per Artemisia Gentileschi, Magritte, Monet, Rosa Bonheur, Edward Bawden, Frida Kahlo, Okusai e molti altri e altre, gli autori ci guidano dentro quelle “stanze”, ciò che rappresentano e ciò che sono oggi diventate. Ho usato le virgolette perché, in effetti, non sempre di stanze vere e proprie si può parlare: Monet, per esempio, per lavorare en plein air e poter accedere a luoghi altrimenti preclusi si era costruito una barca-studio galleggiante, con la quale esplorava le acque di Argenteuil, poco distante da Parigi; ben noto, poi, che per un lungo periodo la pittrice Frida Kahlo non potè usare uno studio perché costretta a letto a seguito di un terribile incidente e si attrezzò quindi per creare direttamente dal letto della propria stanza, con un cavalletto speciale e uno specchio sul soffitto per i suoi poi celebri autoritratti.
Ma anche quando gli artisti scelgono studi intesi come luoghi chiusi entro quattro mura, ciò che prende forma entro quegli spazi è talvolta sorprendente e si lega al processo artistico, all’indole dell’autore, alle sue esigenze creative e altro ancora: la baraonda dello studio di Bacon racconta di un artista che diceva di sentirsi a casa nel caos e che da esso traeva ispirazione; Edward Bawden lavorava ai variegati progetti dalla mansarda della sua casa dell’Essex ma la sua passione per il giardino – cui si dedicava come prima cosa ogni giorno – ne influenzava gli spazi e quello studio si popolava allora di piante, dentro e fuori; sicuramente meno eccentrico dello studio di Rosa Bonheur che condivideva lo spazio invece con tutti i suoi animali, cavalli, pecore, cani e in un cortile interno aveva perfino un serraglio «composto da uccelli, capre e perfino una lontra». Diciamo che l’ordine non va sempre d’accordo con la creazione e gli spazi artistici.
Molto spesso, inoltre, i confini tra luogo di lavoro e luogo domestico privato si sono dissolti e il primo ha preso il sopravvento sul secondo, in una fusione che ha diverse implicazioni a mio avviso, a partire dal discorso su ispirazione, creatività, intreccio di arte e vita. Ma anche, nel caso delle donne, dalla questione legata alla domesticità e alla mancanza di uno spazio proprio, la professionalità per lungo tempo non riconosciuta. Di recente ho riletto Al faro di Virginia Woolf – tra l’altro non manca in questo volume di Johnson e Oses anche un ritratto della sorella artista Vanessa e del suo studio nella mansarda della fattoria dell’Essex dove alloggiavano lei e tutto il Bloomsbury Group – e mi sono soffermata sulle riflessioni di Lily, i suoi dubbi sull’essere donna e artista, come la sua attività godesse di così scarso riconoscimento in quanto donna e del desiderio di uno spazio cui potervisi dedicare pienamente. Sono molte le sfide che gli artisti di ambo i sessi si trovano ad affrontare, dalle difficoltà economiche, al dialogo con una comunità spesso chiusa dentro certi privilegi, dalla sufficienza con cui ancora spesso si guarda ai mestieri creativi – e la domanda che presto o tardi tutti coloro che si sono dedicati all’arte in qualche forma: ok, ma di lavoro vero che cosa fai? – dal ruolo sociale della loro opera al mutamento dell’estetica: problematiche e conflitti che esistevano un tempo e che, mutati forse, persistono anche oggi, ma è innegabile che per un’artista essi si caricano di un fardello ulteriore, altri ostacoli da superare. Il genio vorrebbero farci credere è uomo, ma il coraggio delle scelte e della perseveranza di artiste come Artemisia Gentileschi, per esempio, raccontano un’altra storia. Di dolore e violenza nel suo caso, ma anche di uno spazio che ha saputo rivendicare come proprio, uno studio dove lavorare, l’ammissione ai luoghi che le erano stati a lungo preclusi.
Sarebbe fiera, immagino, Gentileschi di vedere come una donna non solo abbia uno spazio da poter chiamare proprio e dedicarsi pienamente al lavoro, ma anche come quello spazio talvolta possa diventare molto più di una stanza circondata da quattro mura, ma un luogo vivo dove la creatività circola e si rigenera: è il caso del distretto artistico immaginato da Tracey Emin, che si fonde anche al discorso sulla riqualificazione dei nostri centri urbani. Parlo di questo quando dico che certi libri spalancano mondi e di come la lettura debba essere un dialogo tra il testo e noi. Tra le parole, le immagini e le storie che raccontano.
Debora Lambruschini
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