Il mio nome è Anastasia Romanov. Il caso di Anna Anderson
di Elisabetta Lubrani
CDM edizioni, 2024
pp. 310
€ 18 (cartaceo)
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«Il mio nome è Anastasia Romanov. Sono la figlia più giovane dello zar Nicola II». (p. 35)
Nel Novecento non sono certo mancati eventi e fatti storici che hanno lasciato dubbi e incognite, tanto che, ancora oggi e nonostante le fonti a loro disposizione, gli studiosi (e non solo) si chiedono dove sia il confine tra la realtà storica (quella documentabile) e la leggenda, alimentata spesso da voci, pettegolezzi e falsi miti. D’altronde, è proprio per quest’ultimo aspetto che alcuni personaggi o casate reali restano nell’immaginario collettivo, assumendo di secolo in secolo una connotazione umana sempre diversa. È il caso, fra tutti, dell’omicidio della famiglia Romanov, avvenuto nella regione di Ekaterinburg il 17 luglio del 1918, conseguenza della nota Rivoluzione Russa. Se in un primo momento, sembrò che la rivoluzione avesse trovato il suo epilogo nello sterminio della famiglia; ben presto, si comprese che la questione era tutt’altro che chiusa. Poco dopo, infatti, una donna, ricoverata all’ospedale psichiatrico di Dalldorf (Germania), dopo aver tentato di togliersi la vita, inizia a dichiararsi come l’ultima figlia dello zar Nicola II: Anastasia Romanov.
È da qui che parte l’accurata indagine storica e umana di Elisabetta Lubrani, Il mio nome è Anastasia Romanov. Il caso Anna Anderson. Sì, perché quella donna, all’apparenza così distante da quei momenti, sembra non avere dubbi: è l’ultima discendente dell’impero zarista. Subito dopo il ricovero, superato un primo momento di titubanza, Fräulein Unbekannt («signorina sconosciuta», p. 27) racconta al personale medico di essersi salvata dai rivoluzionari e di essere fuggita dalla Russia, grazie all’aiuto di alcuni amici della famiglia reale. Se inizialmente i medici e le infermiere l’ascoltano con estrema pazienza, spiegando quelle affermazioni con un delirio mentale, dall’altra la sua insistenza porta ben presto a chiedersi se nei suoi racconti ci fosse «un fondamento di verità» (p. 34). È sufficiente il dubbio perché, nel giro di qualche mese, la notizia faccia il giro di tutte le famiglie nobili europee, ed è così che al suo capezzale si riversano molti esuli russi che avevano trovato rifugio dall’aristocrazia europea, tra cui molti sostenitori dei Romanov. D’altronde, l’occasione non è da poco perché, se davvero quella donna fosse la figlia più giovane dello zar, potrebbe reclamare il trono, diventando la chiave per restaurare la monarchia in Russia.
[...] nei circoli culturali la questione era dibattuta da tutti, nei locali notturni si improvvisavano ritornelli e canzonette su Anastasia. Tutte le pubblicazioni di Berlino parlavano di Anastasia [...]. A Stoccarda, a Düsseldorf, a Brema, ovunque ci si chiedeva: Anastasia è ancora viva? (p. 161)
Il chiarimento, però, non è semplice: come dimostrare con prove certe e inconfutabili che Fräulein Unbekannt è la Granduchessa Anastasia? Inizia qui un via vai di storici, grafologi, psichiatri, avvocati e di testimoni (non sempre in buona fede) che si protrae anche dopo la morte della donna, senza mai (fino agli anni Novanta almeno) chiarire però in modo inequivocabile la sua identità. Sì, perché in questo giro di visite, perizie e testimonianze, non saltò mai fuori quella decisiva in un verso o nell’altro, e così «ogni volta che si faceva avanti qualcuno pronto a confermare l’identità, ne arrivava un altro pronto a smentirla» (p. 180). Di fatto, Fräulein Unbekannt (che poi cambierà nome in moltissime occasioni, assumendo per ultimo, quello di Anna Anderson) rimane incastrata in un circolo vizioso, dal quale non riuscirà mai più a uscire, rimanendo però sempre convinta di essere la figlia dei coniugi Romanov («Io sono la granduchessa e pretendo tutto quello che mi spetta di diritto: titolo ed eredità», p. 203).
Quello che però mi ha sorpreso di più nel corso della lettura è che se, nei primi anni, l’attenzione era rivolta a chiarire la questione, negli anni della maturità di Fräulein Unbekannt, quando lascerà il manicomio di Berlino per essere ospitata a turno da varie famiglie aristocratiche, è diventata simbolo di una lotta che aveva ben poco a che vedere con l’identità vera o presunta della donna. Lo si nota ancor di più negli ultimi anni, quando una volta trasferitasi negli Stati Uniti, Fräulein Unbekannt è vista e spiata come un «raro animale esotico» (p. 215), simbolo di qualcosa che forse non fa nemmeno più parte della Storia stessa ma che ha travalicato i confini della Rivoluzione, assumendo ben altri connotati, in primis umani.
La sopportavano solo per quello che pensavano rappresentasse. «Per loro non ero una donna, ero uno spettacolo» confidò amaramente a una sua conoscente. (p. 216)
Elisabetta Lubrani dona nuovamente una voce a Fräulein Unbekannt, intrecciando la documentazione storica con la parte più umana (e quella più fragile) di questa donna, che, forse, si è ritrovata in una situazione ben più grande di sé, senza però mai arrendersi anche davanti alle prove più evidenti. Al dì là dell’interrogativo identitario, Il mio nome è Anastasia Romanov è un libro che si muove tra le pagine della Storia, mostrandoci quanto Il caso Anna Anderson sia diventato, almeno per alcuni, una questione di principio e quanto abbia coinvolto numerose persone nel corso degli anni. E non solo nobili o politici in cerca di un riscatto sociale, ma anche, ad esempio, i tabloid, che individuarono nella sua storia uno “scoop facile”. Tra narrativa e saggistica, è certo che l’autrice ha tirato i fili di una questione che per decenni è stata una matassa difficile da sbrogliare, dando l’opportunità di approfondire un mistero che non smette di incuriosire ancora oggi.
Giada Marzocchi
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