In occasione di Più libri più liberi, la fiera della piccola e media editoria che si tiene ogni anno presso la Nuvola di Fuksas, nel cuore dell'Eur a Roma, lo scrittore Paolo Di Paolo ha intrattenuto un dialogo con il poeta Giovanni Nucci sul tema della poesia. Dopo l'evento, David Valentini ha raggiunto Paolo Di Paolo presso lo stand del Mulino per un'intervista in merito al suo ultimo libro, Rimembri ancora (potete invece trovare qui la recensione a cura di Deborah Donato).
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Rimembri ancora. Perché amare da grandi le poesie studiate a scuola di Paolo di Paolo Il Mulino, 2024 pp. 237 Vedi il libro su Amazon |
Secondo te c’è un modo per recuperare questo iato tra lo studio che si fa a scuola e l’interesse vero e proprio? Perché una cosa fondamentale che dici è che i poeti raccontano di cose importanti, raccontano di dolori, sofferenze, amore, guerra. Come fa un bambino di dieci anni o uno studente di liceo a comprendere queste cose senza averle effettivamente vissute?
Credo che sia una questione di occasioni nella vita adulta. Non sono tantissime quelle che rimettono in contatto con un sapere scolastico. Se togli la poesia e pensi a un sapere minimo, di natura scientifica, matematica – il teorema di Pitagora, la fotosintesi clorofilliana – sono cose che stanno, come dico all’inizio del libro, in quel bagaglio, ma restano là un po’ inerti. Sai che ci sono, ma non ci sono grandi momenti in cui te ne riappropri. Allora il punto sarebbe determinare occasioni nella vita adulta in cui ci si riappropria di quel sapere.
E
cosa accadrebbe a quel punto?
A quel punto interviene l’esperienza, che colma quella distanza che necessariamente sentivi. È un bene. Non vorrei che fosse frainteso che uno scopre da piccolissimo certe cose di cui non coglie integralmente il senso, ma poi sarebbe utile che uno restasse studente a vita. È ovviamente se vuoi un’iperbole o addirittura un’utopia.
Riesci
a farmi un esempio pratico?
Pensa a un’occasione come questa. [Più libri più liberi] è un festival [ma lo si potrebbe] leggere come una gigantesca aula scolastica in cui persone adulte cascano, magari per caso, un po’ sbadigliando, semplicemente per posare le gambe perché non ne possono più di camminare tra gli stand – allora si siedono in una delle sale e c’è qualcuno che legge una poesia. E quella poesia comincia a risuonare in loro come familiare: appunto l’esperienza adulta riesce a coglierne qualcosa che allora non si raccontava. Uno dovrebbe moltiplicare le occasioni in cui questo può accadere. È un’idea, lo dico nobilmente, mi rifaccio a un’intuizione di Tullio De Mauro: un processo di istruzione permanente degli adulti, in un contesto in cui civilmente, socialmente, possano sentirsi ancora studenti. È una cosa importantissima. La divulgazione anche televisiva, qualche volta radiofonica, anche in forma di libro, aiuta a rientrare nella dimensione dello studente che ha un’attrezzatura un po’ più sofisticata di quella che aveva quando eri un ragazzino.
Resterei
allora sul tema della memoria. Sempre Nucci, prima, ha detto che dovremmo coinvolgere le neuroscienze. Sarebbe interessante capire
cosa accade al cervello a livello mnemonico, di illuminazione dei circuiti, quando
si leggono poesie o si ascoltano le canzoni di quando si era piccoli. Ora, senza
scomodare le neuroscienze: cosa accade a te? Cosa è accaduto a te la prima
volta che hai riascoltato una poesia o l’hai rivista scritta su un cartellone e
hai ripensato a cosa è accaduto vent’anni fa, trent’anni fa?
Guarda, per impiegare un termine proustiano, funziona come un’intermittenza del cuore. Proust usa questa espressione per dire di quando una memoria improvvisa ci ridetermina un sentimento che credevamo di avere perduto. Quindi è come se il cuore si contraesse o si distendesse e noi ritrovassimo intatta una sensazione. Se potessimo monitorare le aree del cervello, i flussi sanguigni, forse ci renderemmo conto che è come quando uno vede un luogo che sente ancora familiare dopo anni. È come se tu ripiombassi dentro quell’età. Allora, anche una poesia letta sui banchi di scuola, una poesia che avevo appreso a memoria, una poesia con la quale mi ero scontrato – penso ai Sepolcri di Foscolo, che non avevo amato alla prima lettura,... Ecco, nel momento in cui mi imbatto in quei versi succede qualcosa. Cioè si attiva letteralmente una memoria di sé stessi in quella situazione. Io che provo, balbettando, a dire all’insegnante del biennio a memoria Il cinque maggio e inciampo nella seconda strofa, e lei che mi toglie la parola e dice adesso continuo con quell’altro. Quella frustrazione, quella mortificazione tornano vivi ogni volta che leggo “Ei fu. Siccome immobile, / dato il mortal sospiro”.
Immagino
che questo discorso non valga soltanto per la poesia.
Questa possibilità riguarda anche il mondo musicale, perché una canzone ci rimanda dentro una stagione della nostra vita. Da qui, è come reimpossessarsi di sé stessi in un altro momento. In più c’è quella profondità di cui parlavamo, che è una profondità di senso, di conquista del senso. Perché è vero che sono io davanti a quella poesia, mi rivedo davanti a quella poesia, ma sono anche l’uomo adulto che adesso riesce a leggerla con altri occhi e altri strumenti.
A proposito di questo, tu citi Fiorello. È tramite lui che ho imparato San Martino di Giosuè Carducci, perché la maestra a un certo punto ha deciso di mettere la canzone di Fiorello. Ogni volta che lo vedo apparire in tv mi torna in mente quella poesia che lui ha cantato nel 1997 e che io ho scoperto dopo, diciamo così, che era una poesia famosa. Ecco, a proposito di cose famose, di scrittori importanti, c’è sempre questo alone di mistero che li circonda, si è detto anche nella presentazione di poco fa. Lo scrittore sembra vivere fuori dall’epoca, quando in realtà racconta le nostre cose, racconta il nostro mondo. Tu nel libro scrivi qualcosa che per me è curiosissima – io non l’ho mai fatto, non ho mai pensato di farlo – ma che tu hai avuto il coraggio di fare: cercare sull’elenco telefonico i poeti, chiamarli e fargli delle domande banali, comuni, come se fossero amici al bar. Ti è crollato quel mito, si è rotto quello specchio che separava te dal personaggio famoso? Cosa hai provato?
Forse proprio per il fatto che ero un anonimo ragazzo che studiava nella provincia di Roma, l’interlocuzione veniva più facile, perché non ero lì né per far leggere le mie poesie (che non ho mai scritto) né per far leggere le mie cose o chiedere direttamente consigli sull’attività letteraria futura. Ero lì per cercare di stanare qualcuno con la scusa, che so, di invitarlo nella mia scuola.
E
cosa accadeva allora?
E allora davanti a questa richiesta, che non veniva nemmeno da un insegnante ma da uno studente, gente come Edoardo Sanguineti, Mario Luzi, Andrea Zanzotto, rispondeva in un modo aperto, solare, anche per certi versi sorpresa dal fatto che un ragazzino si rivolgesse a loro. È successo anche in una fase più adulta – soprattutto con i narratori, perché i miei interessi si sono concentrati sulla narrativa – che quei quaranta o cinquant’anni di differenza d’età, qualche volta addirittura di più – penso che a venticinque anni ho incontrato Raffaele Lacapria, io sono nato negli anni ottanta, La Capria: lui è nato negli anni Venti, quindi c’era una distanza enorme – questa distanza non contava nel momento in cui si mettevano due persone, una giovanissima, l’altra magari in una soglia molto avanzata della sua vita, a discutere intorno a domande che non puoi smettere di farti: che vuol dire scrivere, perché a un certo punto scrivi quella cosa e non un’altra, cosa vuol dire esprimersi nella vita, che poi è una domanda che io penso che sia enorme, cioè che cos’è l’espressione, che vuol dire compiersi come esseri umani nell’espressione. Quindi, quando anche con una certa ingenuità ponevo queste domande, mi sentivo tenere al telefono o in presenza delle piccole lezioni che avevano tutta la generosità e la disinvoltura delle cose gratuite. Non c’era nessun tornaconto, ma c’era la voglia di condividere.
Quindi
percepivi una differenza fra lo scrittore sul testo di liceo e la persona al
telefono?
Mi
trovavo di fronte persone che invece di indossare i paludamenti e tenersi
dentro la schermatura della fama e della inavvicinabilità, si mettevano in
dialettica con lo sconosciuto, cioè con un piccolo e giovane lettore anonimo,
molto curioso e molto appassionato. In questo senso, gli incontri nelle scuole
con gli scrittori dovrebbero servire a togliere un po’ di polvere dagli
scrittori. È ciò che succede in una fiera come questa: tu incontri persone, le
vedi che hanno i loro corpi, i loro fallimenti, i loro difetti, le loro imperfezioni,
e non sono dentro un sacrario. Quando sfogli l’antologia scolastica, che spesso
è priva di immagini – anche su questo insisto un po’ nel libro – tu pensi che
siano come degli algidi hardware, a proposito di intelligenza artificiale: ti
chiedi da dove hanno generato queste poesie. Invece hanno una barba, degli
occhi, delle mani, dei dolori privati, delle sofferenze minime o gigantesche,
colossali, delle vere e proprie zone di viltà e di ombra nelle loro vite.
Questo riancorare l’opera a una vita vera, senza eccessi di morbosità o di aneddotica, è fondamentale per far capire che è dall’umano che nasce qualunque sublime forma di espressione.
Hai detto qualcosa che mi ha colpito: incontravo persone e non scrittori. Questa è la cosa secondo me fondamentale. Mi permetto una piccola digressione. Io ho frequentato il liceo scientifico. Quando studiavo filosofia ritrovavo davanti nomi – Kant, Hegel – poi a un certo punto compare Nietzsche e c’è una foto, non più un dipinto. È stato uno scarto per me, perché la foto è una cosa che utilizziamo ancora oggi, e mi ha fatto capire che quella persona esisteva veramente e non era dipinta da qualcun altro. Questa cosa, diciamo, in piccolo, è un po’ quello che dicevi tu.
Vorrei
andare verso la fine con una domanda che riguarda le poesie brevi. Le poesie
brevi secondo me rappresentano il culmine della poesia. Senza andare sempre sul
classico Ungaretti, penso a Patrizia Cavalli, scomparsa di recente.
Prima
stavo cercando delle poesie di Patrizia Cavalli e di Montale, anche per questa
intervista. Le ho trovate su Google e mi sono reso conto di quanto siano meno
potenti lette su un telefono rispetto al leggerle su una pagina. Perché? Perché
quelle tre righe di Patrizia Cavalli o le due righe o le quattro righe di
Ungaretti, contornate da uno spazio bianco enorme, sono molto, molto più
vitali. Durante la presentazione si è detto che le poche parole rappresentano l’urgenza.
Io ti chiederei invece un’osservazione non sulle parole, ma su ciò che è
intorno alle parole. Cioè su quello spazio bianco che resta e che si perde
nelle poesie molto lunghe, un po’ come il rapporto tra racconto e romanzo. Cos’è
quel bianco che c’è intorno?
La cosa più decisiva è quella che fa anche più paura, perché il colpo d’occhio che restituisce un libro saggistico, un libro di narrativa, è un colpo d’occhio canonico. Righe nere su un fondo bianco, che sia una versione digitale o cartacea poco cambia. Che cos’è che nella poesia ci fa un po’ esitare? Proprio l’esubero dello spazio bianco.
Che
cosa intendi di preciso?
Tu
come lo interpreti quello spazio bianco? Che cos’è? Non è detto che sia
qualcosa di rassicurante. Uno potrebbe dire: sfogli un libro di poesia, vedi, ci
sono poche scritte, è facile. Come da bambino saresti stato contento quando ti veniva
assegnato un libro in cui sono più le immagini che le parole, un albo in cui
effettivamente appaiono poche righe.
Nella poesia accade il contrario. Fa proprio un effetto strano, perché ti chiedi: ma se fossi io che non capisco l’abissalità di quei tre versi? Anche nei lettori forti sento questa diffidenza nei confronti della poesia, soprattutto contemporanea. Mi è capitato, nelle presentazioni di questo libro, che persone mi si avvicinassero e dicessero: prendo il suo libro perché vorrei rimettermi in confidenza con la poesia, ho un po’ paura della poesia, soprattutto non conosco la poesia contemporanea. Il punto è quello: quello spazio bianco è importante tanto quanto quello che c’è scritto. È come una specie di cassa di risonanza, armonica, perché quei versi sono sempre, anche quando sono versi liberi, congegnati musicalmente, ritmicamente.
Il
bianco intorno alla poesia può essere quindi assimilato al silenzio dopo una
canzone.
La musica esiste proprio in grazia del silenzio, in virtù del silenzio che interrompe, e le pause sono tanto decisive quanto la nota che viene suonata. Questo naturalmente richiede un allenamento, però anche una confidenza con qualcosa che non riusciamo subito a interpretare. Allora, il punto è proprio questo: che la poesia senza quello spazio bianco non esiste, senza quella sospensione, senza quella affacciarsi nel non detto e nel non dicibile.
Sembra
il processo inverso rispetto a quello che capita nella letteratura in prosa.
Io scrivo romanzi e saggi, nei quali quell’accumulo di parole è come una presa che sfugge. La poesia si ferma un attimo prima, perché magari attraverso un’intuizione fulminante ha colto qualcosa, ma poi si riapre verso il non detto e verso il silenzio. È proprio connaturato al gesto del poeta il rapporto con il non detto e col silenzio.
E
quindi, per concludere: come ci si deve porre dinnanzi alla poesia?
Non
bisogna preoccuparsi: darei questa come indicazione del non capire. Senza contare
che nella poesia contemporanea c’è anche una grande dose di trasparenza
comunicativa, e questo per esempio i lettori che non sfidano i loro pregiudizi
non lo sapranno mai. Wisława Szymborska, che è una poetessa polacca, premio
Nobel, ha una poesia leggibilissima. Potremmo metterci qua, fermare la gente a
leggere delle sue poesie e le capirebbero istintivamente.
Anche dove la poesia è leggermente più sofisticata, però, non devi aspettarti di capire tutto. Faccio spesso questo esempio: è come l’arte contemporanea. Tu entri alla Biennale o in un museo d’arte contemporanea, cominci a guardare queste opere che ti sembrano oracolari, sibilline, qualche volta ti sembrano delle pure provocazioni. Ma, come una volta ha detto uno scrittore catalano che si chiama Enrique Vila-Matas, non capire è una porta che si apre. Tu questo devi accettarlo, mentre oggi pretendiamo a tutti i livelli, anche un po’ ottusamente, di capire tutto. La poesia invece ti abitua anche a non capire tutto, a dire: ma questo verso, che vuol dire? Pensa “e il naufragar m'è dolce in questo mare”. È l’ultimo verso dell’Infinito. Quale mare esattamente? Il mare della conoscenza, la vertigine cognitiva, il mare di una vita più larga della mia, di un orizzonte che promette qualcosa? Potremmo continuare per tanto tempo e non arriveremo a definirlo, quel mare in cui naufraga Leopardi.
Quindi,
secondo te, l’incapacità di una piena comprensione è proprio ciò che apre al
dialogo con la poesia?
Esatto. Non capire fino in fondo è ciò che rende quella poesia ancora incredibilmente intensa e leggibile. Il fatto di non averla capita del tutto ci rende interessante il rapporto costante con quel testo.
Come
vuoi chiudere questa conversazione?
La parola con cui potremmo chiudere questa conversazione è risonanza. Tu devi far risuonare in te qualcosa, che sia la canzone, che sia il testo. È solo in quella risonanza, in quella eco che è residuo, che si muove qualcosa. Non è nell’atto immediato della lettura, né del quadro, né del testo poetico, né nel primo scopo di una canzone: è quella specie di macchia, di traccia, di deposito che fanno la differenza. È per quello la poesia è una cosa che invita alla rilettura perché sulla base di quel deposito la seconda, la terza lettura agiscono.
Grazie,
Paolo.
Grazie
a voi.
Intervista a cura di David Valentini. Ringraziamo l'autore per la generosità delle sue risposte e Giulia Passerini del Mulino per aver organizzato questa occasione d'incontro.
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