A differenza di quanto accade di solito è intercorso molto tempo tra la lettura del testo e quello che mi accingo a scrivere: ho sentito il bisogno di mettere una distanza, lasciar decantare Bene immobile e ragionarci da un’altezza diversa, con l’idea che il tempo forse potesse svelarmi il mistero di una scrittura che ha ammaliato molti lettori e critici letterari ma che invece ha deluso me. Bene immobile è il terzo volume dell’autobiografia in movimento (qui le recensioni dei volumi precedenti) della scrittrice inglese Deborah Levy, pubblicato in Italia da NN nella traduzione di Gioia Guerzoni; terzo ma non ultimo, perché in diverse interviste Levy ha detto che sta lavorando al prossimo. Ora, prima di addentrarmi nelle ragioni per cui questo testo decisamente non mi ha convinta e in generale il mio giudizio sia piuttosto tiepido rispetto a tutto il progetto, è bene precisare che la valutazione non ha a che vedere con il genere letterario di riferimento, l’autofiction, che leggo con una certa curiosità e apprezzo.
Come sottolinea anche Durastanti nella prefazione a questo volume, l’autofiction è tra i generi più popolari di questi anni, soprattutto tra le scrittrici. Una forma ibrida, che mescola abilmente biografia e invenzione letteraria: l’esperienza personale, dunque, la memoria, si intreccia alla finzione e l’io letterario si discosta – di quanto sta all’autore – da quello reale, in un’ambiguità in cui il personale sa farsi universale. Sebbene in tempi recenti abbondino opere etichettabili come autofiction, questo è un genere che affonda le radici già nella tradizione novecentesca: l’opera monumentale di Proust, Alla ricerca del tempo perduto, può essere letta in questa chiave, così come il Dedalus di Joyce, per fare solo due esempi illustri. In quella discrepanza tra vicenda reale e invenzione letteraria, nella manipolazione e nella selezione del ricordo e, soprattutto, nella frammentarietà dell’io, si colloca infine l’autofiction contemporanea che proprio in questi tratti peculiari pare trovare ragione di esistere e proliferare nella società attuale.
L’autofiction, dunque, pare essere diventata la forma-genere più adatta ad accogliere le riflessioni delle scrittrici che in quella frammentarietà e potenziale universalità dell’io femminile hanno trovato una dimensione ideale. Anche il progetto di Levy si inserisce quindi in un filone che va dal Lessico famigliare di Natalia Ginzburg, passando per La campana di vetro di Sylvia Plath, buona parte della produzione letteraria di Joan Didion, la trilogia di Tove Ditlevsen, i testi di Fleur Jaeggy, fino ad arrivare a La straniera della stessa Claudia Durastanti, Cose che non si raccontano di Antonella Lattanzi, Le cattive di Camila Sosa Villada, Gita al fiume di Olivia Laing, i volumi di Judith Schalansky, di Jazmina Barrera o di Dominique Fortier. Non è che una minima selezione di un genere che adopera varie forme e che, appunto, popola gli scaffali delle nostre librerie in Italia e all’estero con opere accomunate da simili intenzioni e di volta in volta diverse tra loro per scelte stilistiche, postura autoriale, spunti e suggestioni. Ecco, l’autobiografia in movimento di Levy si colloca in questo filone rivendicando più marcatamente la componente personale, ma stabilendo comunque un rapporto peculiare tra memoria e invenzione letteraria.
Dalla veloce carrellata dei testi poc’anzi citati appare evidente come sotto l’etichetta di autofiction risiedano cose anche molto diverse tra loro, pure quando restiamo nello spazio della scrittura femminile e, ancora, come tale modalità narrativa sia scelta spesso dalle autrici per riflettere sul mestiere di scrivere, da angolazioni differenti. Un intreccio perfetto di realtà e invenzione, personale e letteratura è la quadrilogia di Azar Nafisi, di cui Leggere Lolita a Teheran è il volume più celebre ma non l’unico di straordinaria potenza. Nei testi di Nafisi appare evidente tutta l’urgenza della letteratura e dell’immaginazione, il ruolo sociale e sovversivo dell’arte e il libro quale mezzo per stimolare il proprio pensiero critico, il dibattito, la riflessione. Il dettaglio personale nell’opera di Nafisi è senz’altro molto presente, data anche la peculiarità della sua vicenda che dall’Iran l’ha portata agli Stati Uniti, ma l’equilibrio resta ideale e la riflessione letteraria salda e puntuale.
Ciò che soprattutto mi affascina della scrittura di Nafisi è quello che invece a mio avviso è venuto meno nel progetto di Levy: il dialogo con il lettore, quel pensiero critico generato da spunti e suggestioni della lettura. Se nel primo volume della trilogia finora pubblicata, Cose che non voglio sapere, la rievocazione dell’infanzia nel Sudafrica dell’apartheid, l’esilio volontario a Londra, la famiglia e il divorzio riusciva a superare la sterile narrazione del sé per aprirsi a riflessioni più ampie circa la scrittura, il patriarcato, la maternità, in questo ultimo volume si sono esacerbate le debolezze già avvertite soprattutto dal secondo, Il costo della vita.
Al cuore di Bene immobile Levy idealmente pone la questione della casa: cos’è casa e soprattutto che cosa rappresenta per una donna, quali spazi e a quale prezzo da conquistare nel mondo. Il punto di osservazione è quello di una scrittrice, alla soglia dei sessant’anni, divorziata da tempo e con due figlie partite entrambe per l’università. La riflessione sull’essere donna e artista iniziata nei volumi precedenti è ancora una volta troppo concentrata su sé stessa e sul proprio privilegio; poco o nulla Levy aggiunge al discorso su patriarcato, emancipazione femminile, identità e scrittura, non aggiunge molto né offre particolari soluzioni o un punto di vista nuovo, come già avvertivo in precedenza. È in questi termini una scrittura ripiegata su se stessa, priva di slancio, parte di un progetto letterario la cui grande risonanza internazionale e accoglienza calorosa mi lascia particolarmente perplessa arrivata a questo punto. Lo sguardo acuto con cui, per esempio, Zadie Smith osserva il mondo contemporaneo e che si riversa nei suoi romanzi e saggi ribaltando o ponendo sotto una luce nuova le convinzioni del lettore, nell’autobiografia di Levy non ha potenza paragonabile; le riflessioni sulla scrittura, sulla difficoltà dell’essere donna e scrittrice, sulla maternità e ciò che ci sottrae risuonano con forza nei testi di Dominique Fortier, mentre in quelli di Levy tutto ciò che alla fine pare restare è soltanto il privilegio. Le stesse citazioni letterarie appaiono a tratti didascaliche e non parte di un discorso più ampio e articolato, come accade nei già menzionati testi di Nafisi o di Barrera.
A Levy quantomeno il merito di non aver ceduto alla deriva della narrazione del dolore che imperversa nel campo dell’autofiction e la scelta di un punto di vista non così frequente in letteratura, ossia quello di una donna tra i cinquanta e i sessant’anni: eppure, anche qui, le intenzioni e le premesse non sono state all’altezza della resa. Quel che resta, almeno per me, è la riflessione su genere e forma dalle molteplici possibilità narrative e la scoperta della propria voce e di quell’io che la caratterizza, da rivendicare per sé. Da rivendicare anzi a gran voce, in un mondo non particolarmente bendisposto nei confronti della soggettività femminile specie quando non conforme e che Levy, invece, ci ricorda quanto sia importante e fondativa nella costruzione della nostra identità.
Debora Lambruschini
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