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L'inganno delle soglie, delle porte e delle chiavi. Una conversazione di Vilas-Matas intorno alla complessa arte della scrittura

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Montevideo
di Enrique Vilas-Matas
Feltrinelli, ottobre 2024

Traduzione di Elena Liverani

pp. 215
€ 20 (cartaceo)
€ 11,99 (e-book)

Attrazione per porte, soglie e chiavi. Si potrebbe riassumere così questo bizzarro romanzo (?) di Vilas-Matas. Dico "bizzarro" e ci aggiungo anche un punto interrogativo, perché non è un romanzo canonico, con una trama lineare che va da un punto A a un punto Z. Si tratta più di un viaggio introspettivo intorno alla letteratura e alla scrittura, e queste due discipline, portate avanti in "malo modo" dal protagonista (che afferma di essere uno scrittore ma non scrive) si concentrano proprio intorno alle porte, alle soglie e alle chiavi.

Allora mi ricordai di Lisa Barinaga a Lisbona e di quando le avevo risposto come se fossi Duchamp. E decisi di rifarlo, di provare a vedere se questa volta il gioco del Je est un autre funzionava meglio. Non era così difficile: consisteva semplicemente nel reagire prontamente quando qualcuno mi chiedeva se era vero che non scrivevo più rispondendo a nome di un'altra persona, scegliendo l'impostazione che il tono usato nella domanda mi ricordava. E il tono con cui quel barcellonese mi aveva posto la domanda alla stazione di Austerlitz era talmente cupo che decisi di trasformarmi in Lovecraft. (p. 149)

Proprio quel Je est un autre pronunciato a suo tempo da Rimbaud (non si sa se volontariamente o sbagliando l'accordo sostantivo-verbo) è il fulcro di tutta la narrazione. Essere chi? E dove? Vivere davvero la realtà o attraversare spazi di finzione che, lo scrittore, fa diventare reali scrivendoli (e viceversa)? Le domande che si e ci pone l'autore sono di ampio respiro: abbracciano il significato e lo scopo stessi della scrittura, e della lettura. 

[...] di dedicare invece un po' di tempo al racconto montevideano di Cortázar, per portarlo come esempio di quel tipo di storie che appartengono alla terza casella della mia classificazione delle tendenze narrative, quel tipo di racconti che organizzano la narrazione proprio intorno all'ostacolo (in quel caso, una vecchia porta dietro un armadio) che impedisce a una storia di essere raccontata in modo completo, pur permettendo comunque al lettore di volare molto lontano. (p. 114)

Intanto il personaggio principale ha una sua propria idea riguardo le tendenze narrative e ce le incasella con precisione: 

1) Quella di chi non ha niente da raccontare
2) Quella di chi deliberatamente non racconta nulla.
3) Quella di chi non racconta tutto.
4) Quella di chi spera che un giorno Dio racconti tutto, compreso il motivo per cui è così imperfetto.
5) Quella di chi si è arreso al potere della tecnologia che sembra stia trascrivendo e registrando tutto rendendo quindi prescindibile il mestiere di scrittore.

Il racconto che dà senso al titolo del testo viene da Julio Cortázar (che sarà l'ossessione di Vilas-Matas), dal titolo La porta condannata, e che lui stesso inserisce nella terza categoria delle tendenze, ovvero quella di chi non ti racconta tutto. Il protagonista andrà a Montevideo, in quella stessa camera d'hotel del racconto, la 205 dell'ex Hotel Cervantes, con l'intenzione di capire se la porta condannata della finzione - una porta nascosta dietro a un armadio che affaccia sulla stanza attigua - esiste davvero. Il fatto curioso è che non solo la stanza e la porta esistono, ma cominciano ad accadere cose stranissime che hanno a che fare con sparizioni, ragni giganteschi e congiure da setta.

Le soglie, le porte, le chiavi. Ancora queste ossessioni. Ci viene in aiuto anche Una stanza tutta per sé di Virginia Woolf, tra l'altro citata dall'autore, come pure altre stanze d'hotel, altri alberghi, altre soglie tra realtà e finzione. Finzione in senso narrativo, come storie inventate. Inoltre è un testo che si gioca su equilibri tra il fare e il non fare, il dire e il non dire: dire di essere scrittori ma non scrivere, chiedersi se ciò che si ha dentro di sconosciuto è ciò che ci permette di conoscerci, scrivere ciò che ci impedisce di scrivere. 

Per esempio, se un giorno per strada un lettore mi avvicinava e i chiedeva se avevo già scoperto perché non stavo scrivendo e il tenore di quella domanda mi rimandava a quanto cercano di chiedere all'astronauta Armstrong al suo ritorno dalla Luna - volevano sapere se aveva scoperto perché siamo qui o de dove veniamo -, mi mettevo al posto dell'altro, in questo Caso Amstrong, e rispondevo quello che era solito dire lui e de metteva fuori gioco l'impertinente curioso: ero semplicemente un tecnico che, insieme ad altri, aveva fatto in modo che l'uomo mettesse piede sulla Luna, ma non m'azzardavo ad affrontare questioni che non erano di mia competenza. (p. 75)

Il narratore è un burlone, ma un burlone eruditissimo. Lascia scivolare tra una frase e l'altra, apparentemente senza badarci, citazioni, frasi, aforismi di altri autori e autrici, facendo sì che li ricordiamo o conosciamo anche noi. Se è vero che la narrazione gira intorno all'ossessione per le stanze (e qui mi ha fatto venire in mente Stephen King con 1408) il focus non è sulla stanza come luogo, ma come spazio dove lo scrittore capisce o perde se stesso, dove dà un senso alla realtà e alla fiction. O forse no. Sta tutto qui il fascino del testo. Anche nelle conversazioni illuminate del protagonista con Cuadrelli, continuamente intorno a Cortázar, si percepisce la volontà di trasmettere un amore tormentato per la scrittura.

Si potrebbe prendere questo strano romanzo come un dialogo intimistico dell'autore con personaggi fittizi e inventati, o anche come piccole lezioni di letteratura. Citando Sciascia, l'autore ci ricorda che "i fatti della vita diventano sempre più complessi e oscuri, più ambigui ed equivoci, cioè quali veramente sono, quando li si scrive".

Credo sia un testo perfetto per gli amanti appassionati di Julio Cortázar e per chi scrive in senso generale, sia in modo amatoriale che professionale. Ricchissimo di spunti di riflessione e di perle da tenere sempre a mente, prima, durante e dopo la scrittura.

Deborah D'Addetta