Il mago
Einaudi, 2023
pp. 512
€ 15,50 (cartaceo)
€ 10,89 (ebook)
Ci vuole un profondo coraggio per diventare Thomas Mann, per farsi narrativamente carico della complessità del mondo del "mago" di Lubecca e per decifrare l'insondabile severità del suo volto. Il coraggio di potere apparire superfluo oppure troppo inventivo e di trasformare un romanzo autobiografico in un esercizio di impudica improvvisazione sull'animo di un gigante del Novecento. Colm Toíbín non è nuovo a queste 'intrusioni' romanzesche nelle vite di grandi scrittori: già nel 2004 in The Master aveva raccontato Henry James, e riesce a compiere un miracolo nel raccontarci Thomas Mann con la classicità di un romanzo di Thomas Mann.
Il romanzo segue un ordine rigorosamente cronologico, guidandoci attraverso le diverse fasi della vita di Mann, a partire dalla Lubecca del 1891, in cui l'adolescente Thomas appare oscurato dal carattere brillante e deciso del fratello Heinrich e dall'intransigenza del padre, che mai aveva nutrito nessuna fiducia e stima né per lui né per gli altri figli maschi, tanto da giudicarli incapaci di prendersi carico degli affari di famiglia. Toíbín comincia dal punto che ogni lettore di Mann sa essere nevralgico: l'opposizione fra lo spirito razionale e utilitaristico, ordinatore, del padre e quello emotivo e artistico della madre. Il mondo teutonico e quello brasiliano. Questa dicotomia, che nei romanzi di Thomas Mann prenderà varie figure (apollineo/dionisiaco, Kultur/Zivilisation, artista/borghese), segnerà profondamente la formazione del giovane Thomas, che
sapeva che lo tenevano d'occhio, non solo nella cerchia familiare, ma a scuola, a messa, Adorava ascoltare la madre che suonava il pianoforte e seguirla quando andava nel suo boudoir. Ma gli piaceva anche essere indicato per strada, rispettato come il degno figlio di un senatore. Era impregnato della presunzione paterna, ma aveva qualche tratto della natura artistica materna, i suoi ghiribizzi. Alcuni a Lubecca si erano fatti l'idea che i fratelli, in realtà fossero non soltanto un esempio del declino del loro casato bensì il presagio di una nuova debolezza che si insinuava nel mondo, specie in quella Germania settentrionale che un tempo andava fiera della propria mascolinità. (p. 14)
«Fiera della propria mascolinità»: queste parole introducono uno dei temi portanti del romanzo, soprattutto della prima parte: l'omosessualità repressa di Thomas Mann. Un tema che nella seconda parte, divenendo un chiaroscuro, un fondo che ogni tanto si svela, assume maggiore potenza narrativa. Invece nella prima parte vi è quasi l'impressione che Toíbín voglia rendere Mann manifesto e bandiera di qualcosa che invece egli mai fu (anche con estrema sofferenza).
La mancanza di stima da parte del padre e il distacco (suo e dei fratelli) dai valori edificanti e imprenditoriali di cui il senatore Mann era imbevuto, segnano la saldatura fra la storia familiare dei Mann e quella della Germania. Il tema della decadenza, del resto, dai Buddenbrook in poi segna l'intera produzione manniana. E di questa produzione il romanzo di Toíbín segue il dispiegarsi, cogliendo nelle pieghe biografiche non tanto la motivazione - non si cade mai nel rischio di biografismo o di psicologismo - ma l'occasione, il momento in cui la mente dello scrittore è stata attraversata, con impressioni e suggestioni, dall'idea embrionale per uno dei suoi romanzi.
L'abbandono di Lubecca, che segna la cesura con il destino di "figlio del senatore Mann", non avvera la profezia che l'adolescente Thomas pronuncia: «lui non sarebbe mai più stato importante» (p.25) . Il romanzo si conclude circolarmente, narrando il ritorno a Lubecca del vecchio Thomas Mann, non solo da premio Nobel ma considerato insieme ad Albert Einstein, il tedesco vivente più importante.
Anche il rapporto con la fama attraversa le pagine de Il mago, in un periodo in cui la fama non era semplicemente successo, ma responsabilità, soprattutto in un'Europa devastata dal nazismo, in cui Thomas Mann è costretto all'esilio.
Sono numerosissimi i temi che Colm Toíbín sapientemente intreccia, senza mai perdere le redini di una narrazione ordinata, lucida, coinvolgente. Tra questi non solo l'omosessualità mai accettata, il rapporto conflittuale con il fratello Heinrich, la reticenza ad assumere un ruolo "politico", il confronto con un mondo da cui si sentiva sempre più estraneo. Ma il cuore pulsante del romanzo di Toíbín è, a mio avviso, la vita familiare. Il romanzo assume a tratti le caratteristiche di una saga, perché i Mann furono una famiglia straordinaria. Thomas e Katja Pringsheim ebbero sei figli: i gemelli Klaus ed Erika, Monika, Golo, Elizabeth e Michael. Ognuno di loro, in special modo i maggiori, impersonò la parte "caotica" del dualismo vissuto da Thomas nella famiglia d'origine, prendendo anche in prestito la sfacciataggine e la disinvoltura tipica della famiglia materna.
Thomas chiese a Katia come fossero potute uscire simili creature da una famiglia contegnosa come la loro. - Mia nonna era la donna più esplicita di Berlino - disse Katia. - E tua madre non si può certo definire reticente. Ma Erika è così dal giorno che è nata. Si è portata dietro Klaus. Lo ha plasmato a sua immagine. Noi non abbiamo fatto niente per imperdirlo. Tutto qui. O forse abbiamo solo finto di essere contegnosi. (pp. 170-171)
I dialoghi familiari, l'atmosfera frizzante benché spesso conflittuale, le risposte salaci e le ininterrotte confidenze tra Thomas e la moglie forniscono uno spaccato ammaliante della famiglia Mann, in cui il padre dava pubblica lettura delle bozze del romanzo appena finito, i figli improvvisavano concerti per la famiglia e gli amici più intimi in salotto, in cui i matrimoni erano spesso di copertura e ci si spostava costantemente fra un continente e l'altro portando appresso le medesime bizzarre abitudini. Proprio in uno scherzo familiare con i figli allora bambini, nacque il soprannome Il mago:
La mattina dopo, a colazione, Klaus raccontò alla madre che il padre aveva poteri magici e conosceva le parole giuste per scacciare un fantasma. - Papà è un mago, - disse. - È il Mago, - ripeté Erika. Da scherzo o stratagemma per rallegrare la tavola quale doveva essere, il nuovo soprannome finì per imporsi. Erika invitava chiunque andasse a trovarli a chiamare suo padre con il nuovo nome. (p. 149)
La figura di Katia è fondamentale nell'equilibrio di Mann, che con lei dialoga, condivide ancor prima delle parole i silenzi. Lei sa tutto di lui, anche quanto egli reprime e nasconde. Con i figli, invece, il rapporto è più complesso e difficile; spesso gli viene rimproverato di essere un padre assente, chiuso nel suo studio, interessato maggiormente ai suoi personaggi che alle vite dei figli. Queste accuse gli pesano, ma sarà il suicidio di Klaus a devastarlo e a mostrarci l'umanità di un padre che si sente sconfitto.
Ma Toíbín non indugia - e di questo gliene siamo grati - nel torbido sentimentalismo, né ci consente alcun voyeurismo sull'animo di un grande uomo. Se possiamo definire "classico" il romanzo di Toíbín è proprio per la sua armonica maniera di descrivere l'animo umano, senza cercare scandali o enfatizzare i tormenti. Ne viene fuori un ritratto di Mann che, se nelle prime pagine sembrava granitico, pian piano acquista complessità e verità. Sorprende scoprirgli una leggerezza nelle reazioni, nei commenti a vicende familiari e nazionali, una distanza dalla vita che gli consente di coltivare e preservare un io inquieto e creativo.
Quale fu il segreto di Mann? Probabilmente lo stesso di Bach, come raccontava la madre a Thomas bambino: «Si chiama Bellezza, - aveva detto la madre. - Il segreto si chiama Bellezza» (p. 498) .
Deborah Donato
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