Molto spesso mi capita di pensare che passerò il resto della mia vita a scrivere di storie e di eventi surreali che ho vissuto lungo i sentieri dell’emigrazione clandestina. È il mio cancro, e non so come curarlo. (p. 47)
Nella raccolta di racconti di esordio, Il matto di piazza della Libertà, lo scrittore iracheno Hassan Blasim mostra a uno straniato lettore occidentale la realtà irachena degli anni dell’embargo, considerato uno dei periodi più bui della storia irachena, ma, soprattutto, il racconto della sua esperienza di immigrato clandestino in Europa - precisamente in Finlandia, dove vive tuttora -, raggiunta dopo tre anni e mezzo di viaggio fatto quasi a piedi, con qualche passaggio su camion a opera di loschi trafficanti di esseri umani. Il lettore occidentale curioso di avvicinarsi a questa scrittura e a questo autore troverà una penna potente, ironica, amara a volte, profondamente umana, visionaria, allucinata, già matura in certi passaggi.
Ho letto in traduzione diversi autori di lingua araba, ma nessuno, di quelli che ho affrontato, l’ha mai usata come fa Blasim. L’arabo è una lingua elegante, dai parlanti è considerata sacra, vero e proprio dono di Allah e gli scrittori arabi secondo me possiedono una innata tendenza alla raffinatezza, alla grazia, che va dai segni grafici della loro affascinante scrittura alle opere letterarie. Blasim usa l’arabo per parlare nei suoi racconti di miseria impensabile, di violenza efferata, di sangue, di sperma, di ammassi di carne a brandelli, di luoghi puzzolenti, di incubi, di cannibalismo, di donne picchiate dai mariti, di mostre di cadaveri maleodoranti. Le immagini sono forti, a volte disturbanti, poste in bilico tra la realtà vissuta e l’incubo più temuto.
Per Hassan Blasim quelle storie che gli bruciano sotto la pelle, per collegarmi la citazione che ho messo in apertura (tratta dal racconto La valigia di Alì), non sono solo un fuoco che lo tormenta come una malattia, ma costituiscono anche l’acqua che lo spegne, la sua meravigliosa terapia. Basta ascoltare o leggere un’intervista in cui Blasim racconta della sua vita segnata dal vagabondaggio, dalla dissidenza alla dittatura di Saddam Hussein, dall’amore per la filmografia e il cinema, per accorgersi che nei suoi libri l’esperienza biografica ricorre quasi sempre, trasfigurata a volte, finanche sublimata, ma assolutamente vivida, ammonitrice. Ed eccoci allora ad ascoltare il resoconto della rocambolesca fuga di un rifugiato iracheno trascritto in un ufficio immigrazione svedese nel racconto L’archivio e la realtà: l’uomo si definisce un musulmano devoto, ma riferisce di essere stato rapito diverse volte da gruppi armati che lo hanno risparmiato e gli hanno dato in mano un biglietto da leggere davanti alle telecamere in cui si autoaccusava di aver ucciso, stuprato, commesso crimini ai danni di diversi gruppi religiosi, anche islamici. La scena è sempre la stessa: trafficanti mafiosi lo vendono a gruppi di uomini diversi, nelle scene sono presenti teste umane mozzate sistemate in una busta e ogni volta l’uomo dichiara di essere ora un ufficiale dell’esercito iracheno, ora di essere un militante di al-Mahdi, ora un terrorista sunnita. Nella storia non c’è differenza tra vittima e carnefice, come la conclusione del racconto afferma a suggello:
«Il mondo non è altro che una storia sanguinosa, tutta da ricostruire, e ognuno di noi è assassino ed eroe. E queste sei teste mozzate non possono essere la prova di ciò che dici, così come non possono provare che la notte non scenderà sulla terra». (p. 17)
Storie di brutalità con cui vengono trattati i clandestini, migranti per mare o per terra, storie di criminali che si arricchiscono con la pelle degli sfortunati in cerca di un luogo migliore, che truffano i malcapitati il più delle volte abbandonandoli al confine dove i soldati li colpiscono con bastoni, pale e li sbattono in prigione. Ognuna di questa storie è una «macchia di merda su una camicia da notte» (p. 18). In realtà i media, soprattutto quelli occidentali, ignorano e fanno finta di ignorare quanto accade a chi valica i confini di uno stato per scappare dall’inferno e quindi
non trasmettono mai, per esempio, certe notizie da umorismo nero, e a voi non arrivano mai le notizie su ciò che gli eserciti della democratica Europa fanno quando di notte, in una sterminata foresta, catturano un gruppo di esseri umani terrorizzati e fradici di pioggia, affamati e al freddo. Ho visto con i miei occhi i soldati bulgari colpire un giovane pachistano con una pala fino a fargli perdere conoscenza. Poi ci hanno chiesto, in quel freddo da gelare le ossa, di scendere in un fiume semicongelato. Tutto questo è successo prima che ci consegnassero all’esercito turco. (pp. 19-20)
Nel racconto La vergine e il soldato si narra di una vicenda misteriosa e demoniaca di un giovane soldato che si trasforma in lupo in seguito a un atto di cannibalismo; ancora, ne Lo scarabeo stercorario, chiaro omaggio a Kafka da parte dell’autore iracheno, la voce narrante è quella di un uomo «sull’orlo della follia» (p. 109) che sogna di essere la larva di quell’insetto avvolta dallo sterco, e che racconta ai medici di sentirsi assalito ogni mattina da un imperante bisogno di fede e d’amore verso le persone e finanche verso le cose, di sentirsi sopraffatto dalla necessità viscerale di credere in qualcosa di immensamente buono e misericordioso. Vuole dai medici non le solite medicine palliative, ma delle «risposte convincenti» alle sue domande
Io non so scrivere storie, però sono pronto a entrare nella questione della letteratura, ma a un unico scopo: tutelare la dignità di chi si trova sull’orlo della follia. (p. 109)
La particolarità della penna di Hassan Blasim in questa raccolta di racconti è la sua capacità di coniugare storie autentiche di emarginazione, clandestinità, con il gusto per il macabro, il mistero, la claustrofobia dell’incubo notturno, l’allucinata follia, quasi come unica alternativa ad una società fatta di violenza illogica e di ingiustizia. Il risultato è un racconto che coinvolge il lettore, lo risucchia nelle vicende, nonostante le asperità delle storie raccontate, ora grazie a quel velo di scanzonata ironia del paradosso che talvolta sottende i racconti, ora per l’ipnotismo delle immagini generate dalla penna di Blasim, che dettaglio non minore, è stato film-maker e documentarista. Per chi si avvicina allo scrittore per la prima volta, consiglio di leggere prima Il matto di piazza della Libertà e successivamente Il Cristo iracheno, raccolta di racconti più matura, ma anche più complessa soprattutto per i più frequenti rimandi alla storia dell’Iraq degli ultimi decenni.
Marianna Inserra
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