La strage quotidiana del lavoro
di Francesco Carnevale
edizioni e/o, 2024
pp. 96
Pubblicati uno dopo l’altro all’interno della collana Piccola Biblioteca Morale diretta da Goffredo Fofi per quelli di edizioni e/o, Soldi! Il capitalismo dei predatori e La strage quotidiana del lavoro sono due saggi differenti per le tematiche su cui si concentrano, ma fratelli per l’ambito che indagano, ovvero l’iniquo e sconquassato mondo del lavoro, del vile denaro, e più ampiamente l’universo in cui tutto ciò è immerso e da cui è sommerso, il capitalismo.
Due testi che quindi si recensiscono insieme per forza di cose, perché dialogano silenziosamente l’uno con l’altro.
Rinaldo Gianola, autore di Soldi! Il capitalismo dei predatori, a conclusione del primo capitolo del volume, che si intitola “Il mondo dei ricchi” e che oltre a discutere del solito divario mondo ricco-mondo povero, che conosciamo benissimo, si focalizza sulla questione delle armi, scrive così: «Però con il 3% della spesa annua per gli armamenti dei Paesi del G7, secondo Oxfam, si potrebbe sconfiggere la fame nel mondo» (p. 29). Verrebbe voglia di allungare la mano e aggiungere con un bel tratto di penna un grande punto esclamativo alla fine della frase, non tanto per trasformare un’affermazione in una sorta di slogan urlato, ma piuttosto per evidenziare una verità che ci appare scontata e già presente nelle nostre coscienze almeno finché non la leggiamo nero su bianco, accorgendoci di netto quanto quest’affermazione ci colga invece impreparati.
Due testi che quindi si recensiscono insieme per forza di cose, perché dialogano silenziosamente l’uno con l’altro.
Rinaldo Gianola, autore di Soldi! Il capitalismo dei predatori, a conclusione del primo capitolo del volume, che si intitola “Il mondo dei ricchi” e che oltre a discutere del solito divario mondo ricco-mondo povero, che conosciamo benissimo, si focalizza sulla questione delle armi, scrive così: «Però con il 3% della spesa annua per gli armamenti dei Paesi del G7, secondo Oxfam, si potrebbe sconfiggere la fame nel mondo» (p. 29). Verrebbe voglia di allungare la mano e aggiungere con un bel tratto di penna un grande punto esclamativo alla fine della frase, non tanto per trasformare un’affermazione in una sorta di slogan urlato, ma piuttosto per evidenziare una verità che ci appare scontata e già presente nelle nostre coscienze almeno finché non la leggiamo nero su bianco, accorgendoci di netto quanto quest’affermazione ci colga invece impreparati.
Il saggio di Gianola si comporta così un po’ ovunque tra i capitoli, ovvero ci sorprende, fa riemergere delle certezze e delle conoscenze che già avevamo, quantomeno in linea generale e retrostante, ma qui vengono rese più materiche e sorprendenti, grazie ai dati esposti, ma soprattutto grazie al tono schietto e incisivo che Gianola utilizza: un po’ per necessità, vista la sottigliezza del volume, ma un po’ anche, sembra, per richiamare l’attenzione su qualcosa che non è una lezione politico-teorica, ma una scoperta cruda e urgente di come stanno le cose, delle carte sul tavolo da gioco attorno al quale noi tutti, in fin dei conti, sediamo.
E se nel primo capitolo ci apre gli occhi sulle ricchezze detenute da un 1% di persone che superano la ricchezze del restante 90% della popolazione mondiale, in parallelo tiene a precisare che i ricchi non sono soltanto altrove, non sono esclusivamente i soliti magnati di cui conosciamo nomi e cognomi e che ci appaiono come figure lontane e invincibili. Non sono soltanto i miliardari a risultare colpevoli:
L’ingiustizia fiscale è centrale in Italia, dove i lavoratori dipendenti, che vivono del proprio lavoro, pagano la metà dell’intero gettito Irpef, i pensionati un altro terzo e gli altri banchettano. Il 42% dei contribuenti versa il 91% del totale mentre circa la metà (il 47%) degli italiani non dichiara redditi. (pp. 10-11)Ancora più amaro e vergognoso è prendere coscienza dell’utilizzo ipocrita e spregiudicato che viene fatto di quelli che sarebbero i “giusti valori” per il solo scopo di farne profitto: la vera natura dell’innovazione ecologica, ci fa intendere Gianola, della green economy, della App economy, della sostenibilità, ecc. non è altro che la ricerca del profitto, il fine è sempre la moltiplicazione degli utili. Così dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, l’interesse per gli investimenti “buoni” non ci ha messo molto a spostarsi sull’industria delle armi, che «alimentano produzione, lavoro, profitti. Creano consenso sociale e politico, ed è terribile solo pensarlo» (p. 25). Un’industria in cui l’Italia, che per Costituzione “ripudia la guerra”, si colloca, secondo i ricavi generati dalla Difesa, all’ottavo posto con l’azienda Leonardo e 25esima con Fincantieri a livello mondiale (dove i primi, ovviamente, sono gli americani) – ma si avvicina al podio se riduciamo il terreno di competizione alla sola Europa: Leonardo è seconda dopo la britannica BAE Systems, e Fincantieri nona.
Mentre continua a crescere la porzione di PIL destinata agli armamenti, la nazione fatica ad andare avanti. Gianola continua nel saggio affrontando tutta una serie di questioni che l’Italia ha bisogno di risolvere per avere una speranza di sopravvivenza: ecco quindi la questione del lavoro precario, del degiovanimento della popolazione italiana, della sanità a pezzi, sottofinanziata, dei giovani spodestati da ogni prospettiva, sempre più impotenti e ininfluenti, dei poveri “colpevoli” di essere poveri, che continuano ad aumentare e che incrementano nonostante il possesso di un salario e di un impiego: «non è sufficiente avere un’occupazione per garantirsi una vita dignitosa, perché gli stipendi in Italia sono troppo bassi e non reggono il costo della vita» (p. 54).
I giovani sono i primi a soffrirne. Mentre due milioni di persone tra i 15 e i 29 anni non studiano e non lavorano, accusati di essere fannulloni, pigri, svogliati, si va sempre più consolidando l’idea che i giovani debbano sacrificarsi e sputare sangue, (morire, persino!), per essere considerati bravi e papabili. Ma per cosa? Per gli stage infiniti, le prove gratuite, «sottopagati quando va bene, vittime di furbacchioni alla ricerca di volontari per concerti “ambientalisti”, lavoretti “solidali” che “fanno curriculum”». Come fanno curriculum i lavori a tempo determinato, le retribuzioni modeste, una «massa di manovra enorme, a costi bassissimi» (pp. 67-68).
Non si tratta di un saggio distruttivo e pessimista, anche se l’amaro in bocca arriva subito, ma per molti versi costruttivo e orientato al futuro, oltre che alla carica ribelle, proponendo e promuovendo soluzioni che in effetti esistono e potrebbero essere attuate, se solo fossero convenienti per la gente giusta: la necessità di un finanziamento sostanziale e rapido della sanità, la costruzione di una rete di asili nido per contrastare la dispersione scolastica e la disoccupazione femminile, l’aumento salariale, una maturazione collettiva e culturale profonda, l’urgenza di investimenti, formazione e digitalizzazione da parte delle aziende per alzare la produttività e di conseguenza i salari, mettendo da parte il pregiudizio ancora imperante che «chi lavora meno è troppo affezionato al divano» (p. 72), in quanto tra le persone inizia a profilarsi un nuovo modo di pensare il lavoro e la vita.
Perché sorprendersi? Il lavoro non è più il valore fondativo delle nostre esistenze, delle nostre democrazie, com’era nel secolo scorso. Si è svalutato, conta poco nel dibattito pubblico, richiama un marginale interesse politico e sociologico.Da qui si allaccia l’altro testo della collana, intitolato La strage quotidiana del lavoro, scritto da Francesco Carnevale. Diversamente dal saggio di Gianola che apre un ventaglio ampio e complesso di questioni, seppure intrecciate tra loro, il testo di Carnevale si concentra su un unico aspetto del mondo lavorativo italiano, il triste argomento degli infortuni sul lavoro.
Si muore di sfruttamento e di violazione sistematica delle leggi, ogni tanto ci si indigna e poi si volta pagina, come se non fosse successo nulla. In Italia siamo stabilmente sopra il livello di mille morti sul lavoro ogni anno. (p. 31)
Nella prefazione al volume Goffredo Fofi intima così il lettore, delineando già una richiesta di partecipazione attenta e coscienziosa da parte di chi legge:
forse l’aspetto più deprimente nella conoscenza della quantità di disgrazie prodotte dall’egoismo dei padroni (sì, dei padroni!), dall’egoismo e dall’incuria – ma diciamo meglio: dall’avidità – del Capitale (e scriviamolo pure con la maiuscola come facevamo un tempo!) è nel modo tra fatalista e rituale con il quale reagiamo – non reagiamo! – a queste tragedie […] E di questo portiamo tutti la colpa, non solo i prepotenti del Capitale e non solo, in parte, i sindacati e in toto una sinistra ufficiale stupidamente passiva… questi morti sono morti nostri, e debbono pesare anche sulle nostre coscienze. (p. 7)Un’invettiva che certamente dà il la per tutto ciò che si legge dopo, ma che soprattutto colpisce per la verità e la carica drammatica del tono, infondendo il desiderio, anziché di leggerlo, quasi di declamarlo come un Volonté in un film di Petri.
Molto più drammatiche si rivelano poi le pagine del saggio di Carnevale, una fonte di dati che, allo stesso modo del testo di Gianola, prende alla sprovvista le nostre coscienze.
[…] devono far capire come la lotta agli infortuni non possa essere diretta, ma debba rivolgersi […] alle “cattive condizioni di lavoro”, con interventi che affrontino la complessità degli effetti negativi del lavoro e in primo luogo l’usura del lavoro, lo sfruttamento del lavoro svantaggiato, le ricadute psicosociali di segno negativo. […] Si tratta in definitiva non soltanto di mostrarsi scandalizzati e di scioperare soltanto dopo che l’infortunio è accaduto, ma di riempire di contenuti veri, critici, verificabili, l’impegno assiduo delle imprese, dei loro dirigenti, dei lavoratori e dei loro rappresentanti. (p. 56)La tendenza alla prevenzione è tanto sottovalutata quanto essenziale e l’autore Carnevale torna spesso su questo aspetto, forse l’unico veramente utile per credere di poter limitare i 1.000-1.200 lavoratori che muoiono ogni anno solo in Italia, crescendo tra i 6.300 e i 7.000 al giorno a livello globale, morti per infortuni o per malattie causate dal lavoro.
Carnevale, che è cultore di storia della salute dei lavoratori, già dirigente di medicina del lavoro nell’Azienda Sanitaria di Firenze e docente presso la Scuola di Specializzazione in Medicina del Lavoro delle università di Firenze e Verona, ci fornisce dati, prove e controprove. Fatti nudi e crudi, facendo il paio con il giornalista Gianola.
Racconta le dinamiche prevalenti degli infortuni, affronta le innumerevoli sfaccettature che danno origine e attizzano il tragico fenomeno. Con accuratezza e sapienza ci mette davanti agli occhi gli aspetti più specifici e per questo meno dibattuti della questione: la legge sugli infortuni, quali sono e come avvengono i controlli, il sistema delle sanzioni che non influiscono in modo sufficientemente determinante sul profitto delle aziende, il ruolo degli enti assicurativi che scaricano sul sistema pubblico tutti i costi, il ruolo inefficiente della prevenzione medica e della formazione non soltanto da parte delle aziende e dei controllori, ma anche dei lavoratori.
Tutto questo legittimando un mercato del lavoro in cui le aziende competono al ribasso su sicurezza, salari, lavoro precario e interinale. Viene insegnato che è normale lavorare gratis, senza diritti, sicurezza e la possibilità di organizzarsi nel sindacato. (p. 51)Sono le parole pronunciate dall’Unione degli studenti a Roma in occasione delle manifestazioni per la morte di Lorenzo, studente al quarto anno dell’Istituto salesiano Bearzi di Udine, all’ultimo giorno di stage in una azienda metalmeccanica. Questa la diagnosi, questa la ricorrente strage che avviene quotidianamente nel mondo del lavoro.
I due brevi ma importanti saggi di Gianola e Carnevale ci aprono gli occhi su una realtà che ognuno di noi vive drammaticamente nel proprio quotidiano, in un modo o nell’altro, ma che ci viene spesso e ripetutamente mistificata dai telegiornali, nei talkshow e nei media in generale. In questi due testi, invece, essa ci appare nitida e tagliente in tutta la sua rabbiosa verità, e questo fa di loro una lettura impellente.
Federica Cracchiolo
Social Network